La tragedia della diga del Gleno: storia e foto di un "Vajont" dimenticato
40 anni prima della tragedia del Vajont cedeva una grande diga appena inaugurata sulle alture della Val Camonica. I morti saranno circa 500
In occasione dei 55 anni dalla tragedia del Vajont ricordiamo la storia di un altro disastro causato dal cedimento di una diga, quella del Gleno, che si consumò 95 anni fa sulle alture tra le province di Bergamo e Brescia.
La tragedia del Gleno
E'la fine di novembre del 1923. Piove da giorni sulla Val Camonica, senza interruzione. A poca distanza da Schilpario, c'è una valle laterale: la Val di Scalve, stretta tra i fianchi delle montagne a cavallo tra le province di Bergamo e Brescia. La pioggia incessante fa crescere il livello dell'acqua di un grande bacino idroelettrico situato a quota 1,524 metri sotto il ghiacciaio del Gleno (m.2830)
Il grande serbatoio era contenuto da una nuovissima diga di sbarramento, terminata nell'ottobre di quell'anno e celebrata come orgoglio di una nazione stremata dalla guerra e dai difficilissimi anni della ricostruzione. La diga del Gleno, dal nome del torrente affluente dell'Oglio che percorreva la valle, fu realizzata per soddisfare la crescente domanda delle fabbriche del fondovalle alimentate dalla centrale idroelettrica di Mazzunno: il Cotonificio della Val Seriana, i cotonifici Zoppi e Pesenti, le Ferriere Voltri a Darfo.
L'idea della grande diga era nata all'inizio del XX secolo, interrotta dalla Grande Guerra. Alla fine degli anni '10 il progetto prese nuovamente forma, affidato per la progettazione all'Ingegner Gmur che morì in corso d'opera, sostituito dall'ingegnere palermitano Giovan Battista Santangelo. Le carpenterie furono invece affidate alla Galeazzo Viganò di Ponte di Albiate (MB). Dopo due anni di lavori, che videro l'impiego di un gran numero di uomini e donne della zona, fu pronta un'imponente diga ad archi multipli di 260 metri di fronte per 17 metri di altezza, in grado di contenere circa 7 milioni di metri cubi d'acqua.
Inaugurata il 23 ottobre 1923, la diga entrò in funzione subito dopo, ma la sua vita sarà brevissima.
Val di Scalve, ore 07:15 del 1 dicembre 1923
E'ancora buio sulla valle e sulla sua grande diga quando un boato atterrisce la popolazione dei piccoli borghi montani. E'questione di pochi secondi, resi eterni dal devastante spostamento d'aria che strappò i vestiti dai corpi, simile ad una bomba atomica.
La diga, riempita all'orlo dalle pesanti precipitazioni dei giorni precedenti, aveva ceduto. Dallo squarcio largo 80 metri la diga riversò milioni di metri cubi d'acqua che in pochi secondi spazzarono via uomini, case, strade, ponti e animali per oltre 10 km. Dopo l'acqua, seguì una spessa coltre di fango e detriti che coprì quel poco che restava dei paesi di Bueggio, Dezzo, Angolo, Corna, Darfo. Il parroco di Azzone sopravvisse e raccontò di aver visto una gigantesca cascata esplodere dalla valle del Gleno e rimbalzare sui fianchi delle montagne della stretta valle, divorando tutto ciò che incontrava sul suo cammino.
L'onda della morte arrivò a danneggiare ed allagare il territorio sino alla confluenza con il fiume Oglio. La marea di acqua e fango spazzò via anche le centrali alimentate dalla diga del Gleno, riducendole ad un cumulo di macerie.
I primi ad arrivare sul posto dopo la tragedia furono gli Alpini dei Battaglione Edolo, assieme alle camicie nere della neonata Milizia fascista. La scena che si presentò ai soccorritori era apocalittica. Arrancando faticosamente nella melma che aveva cancellato ponti e strade affioravano i cadaveri dei valligiani. Molti corpi saranno trovati anche 20 km più a valle, trascinati fino al fiume Oglio assieme alle masserizie e alle carcasse degli animali. Mentre gli Alpini scavavano disperatamente, da Lovere partivano i Vigili del Fuoco, raggiunti poco più tardi dai Prefetti di Brescia e Bergamo con i pompieri e alcuni treni speciali per i soccorsi. Dalle prime sommarie stime, si delineò l'entità della catastrofe: nel solo abitato di Darfo mancavano all'appello 200 persone, mentre i superstiti vagavano alienati tra i resti delle loro case. Alla fine il bilancio sarà catastrofico. Sotto la coltre di fango o trascinati a valle dalla corrente rimarranno dalle 356 accertate alla 500 vittime stimate.
Le cause della tragedia, i colpevoli impuniti
La grande diga che si sbriciolò quella tragica mattina di 95 anni fa non era nata come diga ad archi multipli, bensì a gravità. Il progetto originario cambiò totalmente mentre le opere di costruzione erano già in corso. Ne conseguì che la diga del Gleno diventò di fatto una struttura "ibrida", senza riscontri con le opere già realizzate in passato.
Questo cambio di rotta si tradusse nella pratica nello sfruttamento di parte della struttura del progetto iniziale a gravità, il cosiddetto "tampone", cioè la superficie di appoggio della struttura della diga. Quando furono progettati gli archi multipli l'ingegner Santangelo scelse di adattarli alla parte già costruita, lasciando che la parte centrale della diga (quella che infatti cedette) appoggiasse soltanto ai tamponi e non alla roccia come il resto dello sbarramento. Inoltre tali modifiche furono notificate soltanto con estremo ritardo alle autorità competenti, quando ormai la costruzione della diga poteva considerarsi completata.
Riguardo alla debolezza della struttura nella parte centrale vi furono numerose testimonianze raccolte nell'unico mese di funzionamento della diga, che indicarono la presenza di evidenti infiltrazioni d'acqua dagli archi nei giorni in cui le precipitazioni avevano fatto crescere il livello dell'acqua nel serbatoio. Inutile puntualizzare che l'allarme della popolazione rimase del tutto inascoltato.
La seconda e non meno grave causa alla base del crollo è imputabile con tutta probabilità all'inadeguatezza dei materiali utilizzati per la struttura degli archi. Successive ispezioni riscontreranno un' eccessiva percentuale di sabbia a scapito del cemento, materiale prezioso nei primi anni del dopoguerra. Nelle immediate circostanze dell'incidente altri testimoni affermarono di avere assistito ad un commercio illegale di sacchi di cemento destinati alle maestranze della ditta Viganò, fatti sparire e sostituiti con la sabbia.
La pressione idrica dovuta all'aumento di livello del bacino idroelettrico avrebbe fatto scivolare in avanti la porzione di archi semplicemente appoggiati al tampone. La debolezza del cemento con cui furono costruiti gli archi non resse alle forti sollecitazioni e provocò la falla lunga 80 metri dalla quale uscirono di colpo milioni di metri cubi d'acqua, generando la gigantesca onda della morte.
Oltre ai difetti nati dal progetto ibrido e dalla povertà dei materiali impiegati, già di per sé elementi determinanti per il destino tragico della diga del Gleno, bisogna tenere presente della pressoché inesistente normativa sulla sicurezza degli impianti negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra. In un periodo segnato anche da un'altissima conflittualità sociale (biennio rosso e ascesa del fascismo) la fretta di tornare a produrre dopo la paralisi bellica, la fame di lavoro e di energia subito disponibile permisero ai progettisti e ai costruttori di modificare in maniera sostanziale progetti e modalità costruttive senza essere bloccati da alcun intervento da parte degli organi di controllo. Basti pensare che dopo l'inaugurazione la diga del Gleno entrò in esercizio senza aver passato alcun tipo di collaudo.
Tutto messo a tacere
La stampa nazionale, che aveva riportato la tragedia con titoli a più colonne nei giorni successivi e aveva lanciato sottoscrizioni e appelli alle amministrazioni locali affinché portassero aiuti alla popolazione superstite della Val di Scalve, smetterà presto di occuparsi del caso della diga del Gleno. Le autorità fasciste, concentrate agli albori del ventennio nella difesa dei primi tormentati anni del regime, non desideravano certamente alimentare il senso di un così grave fallimento nella rinascita del settore dell'energia e dell'industria nazionale. Le indagini si concluderanno con il processo che nel 1928 condannerà a pene risibili i vertici delle imprese che realizzarono l'opera, lasciando che il tempo e un'altra guerra cancellassero la tragedia del Gleno dalla memoria collettiva degli Italiani.