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Televisione

Arriva la nuova stagione di Boris

La serie ormai è un cult e, per la gioia dei suoi amanti, è pronta a tornare

René Ferretti lo ha urlato senza alcuna vergogna: «A noi, la qualità ci ha rotto er cazzo». Lo ha detto così, con l’«er» del dialetto romano, marchiando a fuoco la terza stagione de Gli occhi del cuore. Avrebbe fatto schifo, e lo avrebbe fatto consapevolmente. «Perché un’altra televisione, diversa, è impossibile», ha aggiunto Francesco Pannofino, con quel suo parlare indimenticabile. E noi, il pubblico, ne abbiamo riso. E tanto, pure. L’abbiamo imitato, senza successo. Abbiamo ripetuto le sue invettive, l’accento strascicato davanti ad amici complici. Ma oggi è passata.

A quindici anni di distanza dalla produzione di Boris, capitolo uno, non abbiamo più grande voglia di ridere. Perché la qualità non ci ha rotto «er cazzo», non davvero, e, nell’ambito di una serialità, quella italiana, dominata dall’eterno ripetersi dell’uguale, René Ferretti ci manca. Ci manca eccome, lui che della qualità rideva perché la qualità l’aveva in sé. René Ferretti è lo spettro che ancora aleggia sopra ogni produzione nostrana, il personaggio cui tendere certi di non poterlo ritrovare. Dovrebbe tornare, e tornerà, perché Disney+ – come confermato lo scorso anno – ha deciso di produrre una quarta stagione della serie culto. Boris, dunque, avrà un altro capitolo, nuovi episodi, lo stesso cast. Debutterà a fine ottobre, il 26, sulla piattaforma streaming. E René Ferretti sarà di nuovo lì, dietro la macchina da presa de Gli occhi del cuore.

Benché anni siano passati, la trama di Boris non verrà stravolta. La serie – che al tempo dell’esordio è stata accolta con un’alzata di spalle per essere riscoperta poi grazie al passaggio su Netflix – tratterà di quel che ha sempre trattato: il dietro le quinte di una produzione televisiva, di quelle che «Viva la merda» direbbero loro. Gli occhi del cuore sarà metatelevisione, la serie cui i protagonisti di Boris continueranno a lavorare. Sarà pessima, ancora, un orrore fatto «A cazzo di cane, non ci crederai, ma funziona sempre». René Ferretti, il regista dello scempio, la creatura grandiosa di Pannofino, lo racconterà così, un’altra volta. E un’altra volta, sul set di quella produzione infima, si consumerà una spietata critica sociale. Perché Boris, all’apparenza votato alla sola ricerca della battuta, è stato capace in tempi non sospetti di leggere e demolire non già l’ambiente televisivo, ma la sovrastruttura socioculturale che attraversa l’Italia. Boris ha riso di tutti noi, dei piccoli vizi e delle meschinità dell’italiano medio. Ha deriso la fame cieca, l’ambizione narcisistica che vede il lavoro non come fine ma come mezzo (e per raggiungere cosa, poi?). Ha replicato, in modo caricaturale e ferocemente limpido, la mancanza di sostanza, nostra e dei prodotti che consumiamo. Acriticamente, allora. Con più consapevolezza, oggi. Boris ci ha messi davanti alla sua piccola verità. E ci manca, Boris. Vorremmo accelerare il tempo e avere la certezza che questa quarta stagione, ambientata all’epoca di social network e influencer, possa essere all’altezza delle tre passate. Lo speriamo, perché di Boris, nell’Italia ferma a Gomorra, nell’Italia di adattamenti orripilanti (vedi Fedeltà) e produzioni che definire originali è un eufemismo, ce n’è un gran bisogno.

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Claudia Casiraghi

(Milano, 1991)

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