Gino Bartali, "Giusto tra le nazioni", nel ricordo del figlio Andrea
Il primogenito del campione svela alcuni aneddoti sulle "azioni in bici" compiute dal padre durante la guerra per salvare la vita a tanti ebrei
Il nascondiglio era un tubo cavo della bicicletta, il segreto le sue gambe da campione che gli facevano macinare chilometri anche sulle dissestate strade del periodo di guerra: così Gino Bartali trasportava in giro per la Toscana e l'Umbria i documenti falsi che servivano a mettere in salvo gli ebrei durante l'occupazione nazista. Tanti atti eroici, camuffati da duri allenamenti, che gli sono valsi un altro prestigioso traguardo a 13 anni dalla sua scomparsa: l'essere nominato "Giusto tra le nazioni" da Yad Vashem, il sacrario della Memoria di Gerusalemme.
La motivazione pubblicata sul sito dell'organizzazione israeliana non lascia dubbi sul ruolo di "Ginettaccio", come l'avevano soprannominato i suoi tifosi: "Cattolico devoto, nel corso dell'occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l'Arcivescovo della città cardinale Elia Angelo Dalla Costa. Questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell'occupazione tedesca e all'avvio della deportazione degli ebrei, ha salvato centinaia di ebrei locali ed ebrei rifugiati dai territori prima sotto controllo italiano, principalmente in Francia e Yugoslavia".
Arrivata proprio durante i Mondiali di ciclismo in corso sulle strade di Toscana, la notizia ha reso felici ma non ha sorpreso la moglie Adriana e i tre figli, tra cui il primogenito Andrea che con la madre ha creato la Fondazione Gino Bartali : "Sapevamo che la Comunità ebraica di Firenze sosteneva da tempo la candidatura di mio padre dopo che gli era già stato dedicato un albero nel Giardino dei Giusti di Firenze e un altro in quello di Padova. E a certificare quelle azioni c'era già stata anche la medaglia d'oro al valore civile consegnata a mia madre nel 2005 dall'allora presidente Ciampi. Tra l'altro, solo in quell'occasione mia madre scoprì quanto si era adoperato mio padre durante la guerra per salvare le vite altrui".
Vuol dire che in famiglia non aveva mai detto nulla in proposito?
"Assolutamente nulla. Ai tempi, sapendo che mia madre era una donna molto ansiosa, le diceva solo che stava andando ad allenarsi e che magari avrebbe fatto tardi. Personalmente, iniziai a sapere qualcosa solo quando lui smise di correre e io rientrai in casa a 15 anni dal collegio. Vede, mio padre aveva tantissimi tifosi ma nessun amico vero con cui confidarsi: a un certo punto deve aver visto in me non solo un figlio ma anche una persona adulta con cui aprirsi e quindi ha iniziato a narrarmi storie del suo passato. E i racconti si sono fatti più intensi in seguito, quando io lavoravo a Milano e lui si trovava spesso nella metropoli lombarda per vari interessi d'affari. A una condizione, però: quelli che riguardavano lo sport, potevo raccontarli in giro a mia volta senza problemi; ma quelli personali dovevano rimanere tra noi".
Ora che suo padre è scomparso e le sue gesta di solidarietà sono note a tutti, può riferirci un aneddoto?
"Beh, una volta arrivò a Santa Maria degli Angeli, ad Assisi, e lasciò la bicicletta appoggiata a un muro per andare a trovare un amico. Un caccia alleato arrivato all'improvviso venne attirato dal bagliore delle cromature e mitragliò la bici dall'alto: per fortuna non la colpì, ma da quella volta - quando era in missione - mio padre la sporcava apposta con la terra per renderla meno visibile. Una cosa necessaria, ma per lui contro natura, perché per papà tenere le sue bici scintillanti era una sorta di obbligo morale".
Le ha raccontate anche di uscite notturne?
"Sì, e di solito si muoveva con il buio quando i partigiani gli chiedevano di andare ad avvisare qualcuno che stava fuori Firenze e rischiava un imminente arresto. Mi raccontava che, se si imbatteva in un posto di blocco, cercava di capire da che parte fosse più facile passare e poi vi si lanciava a tutta velocità confidando sull'effetto sorpresa e nella potenza delle sue gambe. Ci furono volte in cui gli spararono anche contro, ma - come intuibile - senza colpirlo. Il vero pericolo lo visse però a guerra finita...".
In che senso?
"Dopo la liberazione, tutti i ciclisti erano senza quattrini perché non correvano da cinque anni. Arrivarono così subito dei suoi amici a Firenze e si misero d'accordo per andare in giro a cercare qualche gara con un montepremi interessante. In una di queste spedizioni, sempre rigorosamente in bici, vennero fermati in un paesino fuori Roma da un gruppo di partigiani rossi che riconobbero mio padre e volevano fucilarlo 'perché amico dei preti'. A salvarlo fu il fatto che c'era con lui Primo Volpi, un corridore che era stato capitano partigiano sul Monte Amiata: si fece riconoscere e garantì per mio padre, salvandogli di fatto la vita".
Ma perché lo faceva? Pur essendo schierato con la Chiesa, non era certo un attivista politico...
"Lo faceva per il semplice concetto cristiano di salvare le persone. Lui era contro la guerra, non riusciva a capire perché gli uomini dovessero scannarsi l'un l'altro lasciando vedove e orfani a ogni angolo".
Se fosse stato ancora vivo, come avrebbe ricevuto questo premio?
"Credo l'avrebbe rifiutato, non certo per disprezzarlo ma perché per lui erano cose da fare perché si dovevano fare, non perché erano da premiare".
La Fondazione da voi creata ha in programma qualche iniziativa particolare per promuovere il ricordo di Gino Bartali e delle sue gesta sportive e non?
"Stiamo lavorando a un progetto chiamato 'Le strade di Gino Bartali' creando dei percorsi cicloturistici sui tracciati tra Toscana e Umbria che mio padre utilizzava appunto per allenarsi. Se poi, oltre che ammirare il paesaggio, gli appassionati penseranno anche all'uomo mentre pedalano, ne saremo solo felici".