Da una parte gli italiani sono sempre più Longevi, dall’altra le difficoltà di adeguare i servizi, il mondo del lavoro, il welfare e la previdenza a una classe d’età avanzata che nel 2050 rappresenterà un terzo della popolazione. E che va valorizzata.
Anno 2050: la «pelle intelligente» che indossiamo per monitorare la funzione cardiaca, cerebrale e muscolare rileva attività anomale, e invia al nostro medico i dati per intervenire tempestivamente. Questi dispositivi elettronici biointegrati hanno sostituito le tecnologie indossabili, come i vecchi smartwatch di tanti anni fa. Mentre gli anziani indossano esoscheletri che consentono loro di camminare meglio e più a lungo. Questo è lo scenario in cui si è fatto l’inimmaginabile per aggiungere trent’anni all’aspettativa di vita umana. Ma la società nel frattempo sarà stata progettata per un’esistenza così lunga? Un bambino su due che attualmente ha cinque anni vivrà fino a compiere un secolo.
Lo sostengono i ricercatori del Center on Longevity dell’Università di Stanford, all’avanguardia nello studio della longevità, che credono che i cent’anni saranno la norma per tutti i neonati entro il 2050. Grazie ai continui progressi della medicina, si prevede che il numero dei centenari in tutto il mondo aumenterà di otto volte. Tra 25 anni, saranno 3,7 milioni di persone. E invecchiare, in ogni caso, sarà un’esperienza molto diversa da quella di oggi: a 65 anni saremo solo «nel mezzo del cammin di nostra vita». Già oggi, del resto, i cent’anni sono la fascia d’età in più rapida crescita a livello globale. Chi marcia veloce in questa direzione è Hong Kong che ha la seconda aspettativa di vita media più alta al mondo: nel 2023 è stata di 85 anni, dietro solo a Monaco con 87. Anche l’Italia si posiziona tra le più longeve: a parte gli ultracentenari della Sardegna nelle cosiddette «Zone blu», dagli anni Novanta è stato stato guadagnato oltre un quadriennio di vita. Si calcola che nel 2050 il 34,5 per cento della popolazione sarà di ultra-65enni.
Ma tutti questi super anziani saranno un «peso» sociale o un valore aggiunto? «Si tende a guardare all’invecchiamento della popolazione in accezione negativa. La longevità, in realtà, è un fenomeno positivo, con potenzialità nell’apportare benefici a livello economico e di mercato» riflette Mariuccia Rossini, presidente del Silver Economy Network. «L’Italia registra un costante aumento dell’età media e dell’aspettativa di vita. La nostra popolazione più anziana rappresenta una grande risorsa se sapremo però renderla strategica nel sistema occupazionale, produttivo e sociale. Ci sarà per esempio un aumento della domanda di prodotti e servizi differenti, che richiederanno una revisione da parte delle aziende». Secondo i dati del ministero dell’Economia, i «silver» in buona salute già oggi sono una colonna portante dell’economia, non solo per l’impatto generato dai redditi percepiti, ma anche per il loro ruolo sempre più attivo nel mercato del lavoro. Sono più dinamici e, in parte, capaci di far sviluppare nuovi segmenti di mercato. In base al rapporto Scenario longevità apparso sul Silver Economy Network, il 18,3 per cento del Pil nazionale del 2021 è stato generato dagli ultra 65enni, con una quota dei consumi del 20 per cento. «Ed è il Mezzogiorno che sta diventando l’area a invecchiamento più veloce: un laboratorio ancora più sfidante» conclude Rossini.
Anche Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e statistica sociale alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, considerare i super longevi un’opportunità: nelle società del passato la probabilità di un nuovo nato di arrivare a 65 anni era pari a un terzo, oggi è superiore al 90 per cento. «È necessario abbandonare l’atteggiamento difensivo rispetto ai cambiamenti demografici e imparare a gestirli. Dobbiamo mettere ogni generazione nelle condizioni di valorizzare tutte le fasi di una lunga vita attiva e favorire una collaborazione tra generazioni». Perfetto, ma resta il problema di chi sosterrà economicamente questi centenari, e se la tradizionale classificazione studio-lavoro-pensione continuerà a esistere o dovranno cambiare anche le basi su cui poggia l’economia per come l’abbiamo sempre conosciuta. «Per lunga parte della storia dell’umanità società ed economia hanno funzionato poggiando su una larga base di giovani, con pochi anziani» spiega Rosina. «Del tutto nuova è, invece, l’impresa di garantire sviluppo e benessere in un mondo in cui i giovani diventano una risorsa scarsa a fronte di una continua crescita della terza età.
L’Italia ha in comune con le altre economie mature la sfida di assicurare una buona qualità di vita nella vecchiaia con adeguate pensioni e possibilità di cura. Da questo dipende la capacità di un Paese di generare benessere e rendere sostenibile il sistema sociale, facendo funzionare il sistema di welfare». È su questo punto, secondo l’esperto, che l’Italia risulta più fragile, come conseguenza della persistente denatalità e con l’elevato debito pubblico che si ritrova. «Se non si contiene l’indebolimento della forza lavoro potenziale, il rischio che la spesa previdenziale diventi sempre meno sostenibile è elevato». Chi pagherà, per esempio, le pensioni? Una popolazione over 100 inoltre potrebbe mettere a rischio l’assistenza sanitaria (già ora molto in affanno, a causa della carenza di medici di famiglia e ospedalieri, e infermieri) e il sistema pensionistico. Nel 2035 il numero di coloro che si sono ritirati dal lavoro supererà per la prima volta quello degli occupati, con un rapporto di 3 a 2, e nello stesso anno, l’incidenza della spesa previdenziale sul Pil potrebbe raggiungere il 17,5 per cento in ambito sanitario, dove l’invecchiamento è associato a un aumento di malattie croniche.
Nel mondo, secondo l’Oms, oltre 55 milioni di persone convivono con la demenza, e raggiungeranno i 78 milioni entro il 2030. L’impatto economico sui sistemi sanitari sarà di circa 604 miliardi di dollari annui, con incremento progressivo. In Italia, dicono le stime dell’Osservatorio demenze dell’Istituto superiore di sanità, i pazienti con deficit cognitivo sono oltre un milione (di cui il 60 per cento con Alzheimer), e tre milioni sono le persone coinvolte nell’assistenza. Il costo annuo medio per un paziente simile è enorme, 70.587 euro, tra badanti e accesso ai servizi socio sanitari. Costi solo in piccola parte a carico del Sistema sanitario nazionale. In una società che invecchia, come la nostra, l’impatto di questo fenomeno potrebbe diventare uno dei problemi più rilevanti in termini di sanità pubblica. «Oggi la scienza ci aiuta a vivere più a lungo attraverso trattamenti efficaci contro molte malattie, come il cancro, che un tempo era quasi una condanna a morte. Ma quando inizieremo a vivere in gran numero fino al secolo, le sfide si faranno difficili se non apportiamo, adesso, alcuni cambiamenti» dice a Panorama il giornalista William J. Kole che nel libro The Big 100: The New World of Super-Aging, esplora le domande più urgenti sul futuro di super-invecchiamento.
Molti più anziani avranno bisogno dei soldi dello Stato solo per sopravvivere. Si lavorerà più a lungo, quindi pagando più tasse, ma numerosi governi sono impreparati a sostenere una popolazione che avrà bisogno di maggiore assistenza. «Negli Stati Uniti, per esempio, il sistema di previdenza sociale inizierà a rimanere senza soldi già tra dieci anni» afferma Kole. «L’importo medio che le persone ricevono è di soli 1.700 dollari al mese. Circa il 40 per cento degli americani vive di questo, senza altri soldi propri, quindi è già povertà». Inoltre è vero che le tecnologie sono sempre più all’avanguardia, ma molte sono accessibili per i redditi elevati. E resta un ampio divario nell’aspettativa di vita tra i ricchi, che vivono più a lungo, e i poveri. «Dobbiamo colmarlo prima di spendere miliardi in terapie per l’estensione della vita che solo chi ha molti soldi potrà pagare. Una sana longevità richiede investimenti nella sanità pubblica». Kole nel libro cita l’esempio positivo della Corea del Sud: ha una popolazione che invecchia rapidamente ma ha creato un sistema di assistenza agli anziani a livello nazionale che paga sia l’assistenza domiciliare che quella istituzionale. I sudcoreani lo hanno fatto dal 2008 e, grazie a tale meccanismo, nessun cittadino deve pagare più di 1.300 dollari all’anno nella terza età. Anche Germania e Giappone si muovono in questo ambito, e i loro sistemi costano solo il 3 per cento del Pil. «Molti Paesi dovranno spendere miliardi in più in Welfare, il che è costoso e potrebbe significare trascurare i bisogni della popolazione più giovane» afferma Kole. «Ma ci sono anche vantaggi. Poiché tanti di noi vivranno tra 90 e 100 anni, lavoreremo di più e pagheremo più tasse. Consumeremo beni e servizi più a lungo e, secondo gli economisti, ciò pomperà trilioni di dollari nell’economia globale. Con una metafora automobilistica, gli anziani saranno più un “motore” che un “freno” del sistema. Avremo uno o due decenni in più per continuare a creare e contribuire alla società». Se poi sarà un periodo con buona qualità, senza ennesime ansie, è la vera sfida del futuro molto prossimo.