Breivik, troppo umani col mostro?
Breivik, vince la causa contro lo Stato norvegese: "Violati i diritti umani". Si riaccende il dibattito tra chi è favorevole e chi no
Anche se il nome non è entrato nell’immaginario comune del nostro paese, a causa di una combinazione di vocali e consonanti che ci rende incerti nella pronuncia, Breivik lo conosciamo tutti.
È “quello che ha ucciso un sacco di persone lassù”.
Lassù, sarebbe in Norvegia.
Un sacco, 77.
Era il 2011. Adesso, dopo cinque anni di isolamento, ha accusato lo Stato norvegese di violare i diritti umani per le condizioni in cui è detenuto.
E ha vinto.
Il paradosso di Breivik
Il paradosso, sottolineano diversi commentatori, è che le sue accuse allo Stato si basano sulla stessa sacralità della vita di ogni individuo contro la quale Breivik si è sostanzialmente battuto massacrando i giovani laburisti residenti in un campo estivo per “protestare” contro il multiculturalismo dell’Occidente.
Il paradosso è quello di un uomo ideologicamente fermo nelle sue convinzioni filosofiche, capace di organizzarsi per dare loro un’applicazione pratica e dotato della spietatezza necessaria per accettare le conseguenze che le sue scelte comportano (massacrare decine di adolescenti inermi), che si lamenta per il trattamento che gli è riservato.
Il paradosso, credono diversi commentatori, inchioda Breivik alle sue contraddizioni.
Ma il problema della coerenza non è il suo, che è un antagonista dello Stato e sfrutta ogni mezzo a sua disposizione per avvantaggiarsi, ma dello Stato stesso, che deve definirsi anche per il modo in cui tratta i suoi antagonisti (senza farci la figura del pollo, possibilmente).
Il buonismo norvegese
E certo, il giustizialismo italiano, con annesso il meschino sputtanamento a mezzo stampa di ogni questione privata, anche la più irrilevante, che riguardi le persone indagate (vedi Bossetti e la gogna cui è stata sottoposta la sua famiglia, o il recente caso di Doina Matei, colpevole di mancata ostentazione di contrizione sui social network), non è un’ideale di giustizia a cui aspirare.
Ma anche il più marcato buonismo, cioè l’esibizione sistemica di bontà, l’ostentazione programmatica di una superiorità morale (tutta da dimostrare), ha i suoi svantaggi.
Ad esempio, da un punto di vista giuridico, impone di condannare a “soli” 21 anni di detenzione uno stragista che fa il saluto nazista in aula e utilizza la stessa come tribuna mediatica.
Impone di mettergli una PlayStation in cella.
Impone di raccogliere le sue accuse di trattamento disumano.
Impone perfino di risarcirlo.
A ognuno il suo
Se è comprensibile, e probabilmente anche auspicabile, pensare che il grado di evoluzione sociale si determini proprio dal modo in cui una comunità è in grado di trattare con umanità anche un simile mostro (o antagonista politico, volendo considerarlo, meno comodamente, un guerriero xenofobo e non un semplice pazzo furioso), supponendo così di vaccinare se stessa dalla produzione di altri come lui, non può essere liquidato come “cattivismo” il legittimo desiderio dei singoli cittadini alla pena di morte per gli stragisti sani di mente.