Le mani nel cuore
Storia di Carlo Marcelletti e dei suoi bambini strappati alla morte
Quando morì, il 6 maggio del 2009 all’ospedale San Carlo di Nancy di Roma, Carlo Marcelletti, cardiochirurgo pediatrico di fama mondiale, non aveva ancora 65 anni: si suicidò ingerendo dosi massicce di digitale, un farmaco utilizzato proprio per gli interventi al cuore. Esattamente un anno prima la Procura di Palermo lo aveva posto ai domiciliari per alcune vicende giudiziarie legate alla sua attività professionale all’ospedale Civico della città capoluogo, con le accuse di truffa aggravata ai danni dello Stato, peculato, concussione e quella, all’apparenza scioccante, di detenzione di materiale pedopornografico. Era morto prima che potesse difendersi da accuse tanto infamanti quanto al limite della credibilità. Anconetano di Moie, classe 1944, si era laureato in medicina e chirurgia e specializzato in cardiologia alla Cattolica di Roma e perfezionato in cardiochirurgia in Inghilterra e negli Stati Uniti dove si era successivamente specializzato in cardiochirurgia pediatrica prima alla Stanford University di Palo Alto, in California, e poi alla Mayo Clinic di Rochester, in Minnesota, i due centri più prestigiosi al mondo. Nel 1982 il ritorno in Italia con il primariato in cardiochirurgia all’Ospedale Bambin Gesù -l’eccellenza italiana per la pediatria multispecialistica- dove avrebbe eseguito, nel 1986, il primo trapianto su un bambino e, soprattutto, avviato la terapia chirurgica sulle malformazioni congenite del cuore nei pazienti pediatrici.
In occasione dei suoi mai festeggiati 80 anni, il presidente dell’Unione cattolica della stampa italiani (Ucsi), Vincenzo Varagona, gli ha dedicato un libro, “Le mani nel cuore. La storia di Carlo Marcelletti, cardiochirurgo che ha salvato migliaia di bambini” (Vydia Editore, 2024), che attraverso decine di testimonianze, ricostruisce la storia di un luminare che si era preso cura, con capacità scientifiche fuori dalla norma e straordinario affetto umano, di migliaia di bambini nati con malformazioni cardiache, e che aveva contribuito, in maniera determinante, allo sviluppo e alla diffusione della cardiochirurgia pediatrica in Italia: 25.000 bambini curati e 10.000 operati. C’è poco altro da aggiungere.
Il testo si avvale della presentazione di Gaetano Thiene, professore emerito di patologia cardiovascolare all’Università di Padova, del ricordo del noto giornalista Paolo Guzzanti, della prefazione di Adriano Cipriani, cardiochirurgo interventistica delle cardiopatie congenite all’Istituto ligure di alta specialità di Rapallo e dell’introduzione di Vincenzo Varagona. Commoventi le testimonianze di alcuni pazienti il cui cuore fu consegnato nelle mani di Marcelletti, a partire da Ivan Di Fratta, classe 1985, il primo bambino ad essere sottoposto, in Italia, a trapianto di cuore ad appena un anno di vita.
Presidente Varagona, il suo incontro con Marcelletti fu del tutto casuale.
«Carlo abitava a pochi metri da casa mia, ad Ancona, negli anni ’60. Ero un bambino, lui era adolescente. Non ricordo di averlo mai visto o incontrato, lui frequentava il liceo scientifico, io cominciavo ad avventurarmi nell’oratorio salesiano. Le nostre famiglie, tuttavia, si erano conosciute, perchè mia madre mi raccontava del suo ricovero in una clinica convenzionata di Ancona alla fine degli anni ’60, per un intervento chirurgico. In quei giorni in una stanza vicina era ricoverato anche il papà di Carlo».
Un incontro premonitore…
«Carlo era studente universitario di Medicina a Roma, ed era venuto a trovare il padre: mia mamma, dopo l’intervento, avvertiva forti dolori e non riusciva a capire esattamente perché. La signora Mafalda, la mamma di Carlo, venendo a trovare il marito, aveva riconosciuto mia madre, e l’aveva avvicinata e le aveva promesso che non appena il figlio “quasi medico” fosse arrivato, gliel’avrebbe presentato. Carlo era arrivato, era andato dal padre e poi si era affacciato nella stanza di mamma: si era informato, leggendo la cartella clinica, e le aveva pazientemente spiegato i motivi del dolore, cosa avesse e come i medici la stessero curando. Ecco, a volte basta un’immagine, un episodio, per capire come sia fatta una persona».
Marcelletti sarebbe riapparso nella sua vita vent’anni dopo.
«A metà anni Ottanta ero giornalista al Corriere Adriatico quando Carlo balzò agli onori delle cronache per il primo trapianto di cuore in un bimbo. Mia madre, nel tempo, aveva continuato a frequentare la mamma di Carlo e mi disse: “Vuoi sentirla?”, così le chiesi un’intervista, che mi venne concessa. Non ho avuto altre occasioni per seguire le vicende di Marcelletti, fino alla tragica scomparsa. Soltanto di recente un caro amico mi chiese se fossi disponibile a lavorare insieme sulla vita di Carlo, perché la tragica conclusione della sua esistenza non poteva offuscare, nè cancellare tutto il bene fatto in vita».
Ecco questo libro!
«Scritto con il sostegno della famiglia che ha accettato di buon grado di percorrere insieme questo tratto di strada, scavando tra le carte, ascoltando i testimoni, intercettando i sentimenti umani. Familiari, colleghi, amici e soprattutto pazienti rimasti in contatto tra loro, come una famiglia tenuta insieme dal dono della vita. Si tratta di centinaia, migliaia di persone, che senza Carlo Marcelletti oggi non esisterebbero: si sono messe a totale disposizione per questa operazione editoriale che io considero di riscatto a favore di una figura cui è riconosciuto uno spessore professionale straordinario, direi unico».
“Gratitudine” è il sentimento che trasuda da queste pagine.
«Non c’è testimonianza dei pazienti che, a distanza di anni, non esprima gratitudine per il dono ricevuto e per la grande umanità con cui Carlo sapeva trattare i bimbi che aveva in cura. Ma non si tratta di un’elegia: non tutte le persone contattate se la sono sentita di affidare a un libro la loro testimonianza. Nel mondo di Carlo Marcelletti ci sono state -e ci sono tuttora- sofferenze e cicatrici di cui nessuno può conoscere le dimensioni, del bene che ancora avrebbe potuto fare e che non può più fare».
Già, il bene che non ha potuto più fare…
«Ho scelto di non entrare nella dinamica processuale del 2008 interrotta dalla sua morte nel 2009. Vorrei che queste pagine fossero un atto di giustizia sostanziale nei confronti di una persona che ha dato tutto sé stesso per la scienza, che ha salvato migliaia di vite, che ha molto sofferto. Parliamo di un’eccellenza della medicina mondiale, colpita nella sua fragilità, dalla quale non è riuscito a riprendersi. Certo, i libri non si sostituiscono alla giustizia, ma possono aiutarla, anche se il percorso nelle aule giudiziarie si è inevitabilmente interrotto. Ma c’è anche una giustizia morale e su questa si può ancora fare molto. Queste pagine vorrebbero riempire, almeno in parte, questo vuoto».
Direttore Guzzanti, anche lei tra i “Marcelletti boys”?
«Lo devo a mio zio Elio Guzzanti, dal 1985 al 1994 direttore sanitario dell'Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Un suo assistente mi confidò entusiasta che proprio mio zio avesse “trovato il miglior cardiochirurgo pediatrico del mondo”. Zio Elio, successivamente Ministro della sanità nel governo Dini tra il 1995 e il 1996, si era messo in testa di potenziare l’ospedale di Largo Gianicolo scegliendo i medici con accuratezza, come con Carlo Marcelletti, con cui poi diventammo amici. Non ho mai digerito la sua morte, ricordata da pochi».
Lo intervistò, presumiamo…
«Sapeva eseguire un’operazione a cuore aperto sul feto ancora in grembo alla madre! E lo fece con me anche davanti alle telecamere. Io ero allora un giornalista di Repubblica, lo intervistai prima degli altri e legammo subito. Era cordiale, intelligente, serissimo e spiritoso, con una voce sonora vibrante e la stretta di mano potente e cordiale. Parlava volentieri del suo lavoro ma col linguaggio giusto per non esperti, i giornalisti come me, per esempio».
Il suo ricordo più toccante!
«All’epoca collaboravo al settimanale televisivo Mixer di Giovanni Minoli e proposi a Marcelletti di filmare l’operazione a cuore aperto su un neonato con un tumore cardiaco. Ricordo l’ordinato subbuglio della sala operatoria che ospitò le camere da presa, con Carlo che operò con semplicità e precisione. Operare il cuore di un neonato faceva una certa impressione ma Carlo agiva con calma e concentrazione mentre compiva gesti millimetrici quasi impercettibili e spiegava tutto in modo comprensibile».
Un esperimento di alto servizio pubblico…
«Una parte della sua mente guidava un’operazione difficilissima mentre l’altra trasformava le sue azioni in parole destinate alla televisione. Il cuore degli spettatori accelerava e si bloccava, seguendo in televisione la registrazione di quell’impresa, quando andò in onda. Marcelletti diventò uno dei più importanti italiani nel mondo per una pratica chirurgica d’avanguardia, e l’Ospedale Bambino Gesù divenne un punto di eccellenza scientifica».
Professor Thiene, il suo ricordo…
«Ci siamo conosciuti all’Ospedale Lancisi di Ancona nel 1973, io all’inizio della mia carriera universitaria di cardiopatologo. Ero stato a tenere una lezione di embriologia di cuore, lui era assistente di Alfredo Palminiello, primario di Cardiochirurgia: Carlo desiderava specializzarsi ai massimi livelli, e fu così che partì per gli Stati Uniti, dove era già stato alla Stanford University di Palo Alto, California. Ai primi del 1975 andò alla Mayo Clinic di Rochester, in Minnesota, che a quell’epoca era la “Mecca” della cardiochirurgia per le cardiopatie congenite, venendo in contatto con cardiologi pediatri come Douglas Mair e Robert Wallace e cardiochirurghi d’avanguardia come Gordon Danielson e Dwight McGoon. Eccoli i suoi maestri…».
Il suo più grande successo?
«Aver eseguito il primo trapianto cardiaco in Italia in età pediatrica, nel 1986. Non dimenticherò mai il suo racconto di un giovane paziente con difetto interventricolare e sindrome di Eisenmenger, sottoposto a trapianto cuore-polmone, del quale, dopo la chiusura del difetto, utilizzò il cuore per un altro trapianto. Paziente che fu ad un tempo “ricevente” e “donatore”. Sotto il suo impulso, la cardiologia e cardiochirurgia pediatrica del “Bambino Gesù” divennero un centro di eccellenza internazionale e una realtà d’avanguardia di diagnosi, terapia, ricerca e insegnamento».
Professor Cipriani, Marcelletti per lei fu soprattutto un amico.
«Ho vissuto circa ventitré anni di vita accanto a lui, come si suol dire “gomito a gomito”, e ho condiviso con Carlo tutto quello che due uomini possono condividere. Con lui sono cresciuto come uomo e come medico, con lui ho gioito e sofferto, ho sorriso e pianto. Tutto ciò l’ho fatto per quella incomprensibile forza che ti viene nel momento in cui incontri una persona che appare come indispensabile nella tua vita. Carlo ed io eravamo profondamente diversi, tanto che era solito affermare pubblicamente che io rappresentassi il suo alter ego, ma, forse, questa complementarità caratteriale e professionale ci ha permesso di incidere in maniera profonda sia nella nostra vita che nella nostra professione».
Un episodio da ricordare per sempre…
«Un giorno, quasi contemporaneamente, parlando del nostro lavoro, ci venne in mente che dovevamo cercare di facilitare il più possibile le famiglie che avevano un bambino cardiopatico, evitando che si spostassero facendo centinaia di chilometri per essere visitati. Pertanto, decidemmo che fossimo noi ad andare da loro e non viceversa. Questa scelta, insieme alla possibilità di avere una risposta completa sia dal punto di vista cardiologico che cardiochirurgico, vicino al domicilio del paziente, ha di fatto stravolto un modello assistenziale consolidato di tipo “istituzionale” fino ad allora l’unico esistente».