Cesare deve morire, intervista al detenuto attore Cosimo Rega
"Il teatro in carcere diventa una terapia", dice l'ergastolano che interpreta Cassio nel film dei fratelli Taviani. La candidatura all'Oscar? "La soddisfazione più importante è vedere i miei figli orgogliosi dopo anni di sottili umiliazioni"
"Non mi bastava sopravvivere al carcere. Volevo vivere. Per questo ho fatto teatro. Perché un detenuto è prima di tutto un uomo, con le sue emozioni, le sue paure. E i suoi dolori. Siamo persone che hanno il diritto e il dovere di riscattarsi, di dimostrare, al di là di quello che abbiamo fatto, tutta la nostra umanità". Cosimo Rega è protagonista del film Cesare deve morire dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani.
È detenuto nel carcere di Rebibbia con una condanna all’ergastolo per omicidio e associazione camorristica. "Facevo parte del clan Alfieri-Galasso… merito gli anni di carcere che ho fatto ma merito anche la possibilità di vivere ancora".
Una vita ricominciata lo scorso luglio grazie ad Angiolo Marroni, il garante per i detenuti della regione Lazio, che lo ha accolto nella sua struttura all’Eur. "Conosco Cosimo da oltre trent’anni, da quando è arrivato a Rebibbia. In carcere ha lavorato e studiato, si è laureato in lettere e filosofia. Ricordo ancora il suo primo permesso all’esterno, ottenuto dopo una lunga detenzione in alta sicurezza: mi chiese di accompagnarlo dalla madre ad Angri, nel salernitano. Un incontro drammatico. Sarò accanto a lui anche il prossimo 13 novembre, in tribunale, quando decideranno sulla richiesta di semilibertà".
Una richiesta avanzata dai legali di Rega dopo i successi di Cesare deve morire, candidato italiano all’Oscar come miglior film straniero e già vincitore di cinque David di Donatello e dell’Orso d’oro al festival di Berlino, un riconoscimento che mancava all’Italia dal 1991 quando il premio venne vinto da La casa del sorriso di Marco Ferreri. "Non sono stati i fratelli Taviani, né i premi o le candidature a darmi questa possibilità, ma un percorso fatto in carcere e durato anni. È un appuntamento naturale per chi, come me, è recluso da 34 anni... Per chi ha chiuso con il suo passato e spera solo di vivere i prossimi anni con le persone che ama. Fuori ho ancora una moglie, una donna coraggiosa che ha cresciuto da sola i nostri due figli. E che nonostante il carcere mi sta ancora aspettando".
Come vive la candidatura all’Oscar?
"Per me è difficile realizzare tutto quello che sta accadendo… La soddisfazione più importante è vedere i miei figli orgogliosi dopo anni di sottili umiliazioni. Non è facile vivere con un padre in carcere. Sono felice di vedere nei loro occhi gioia e soddisfazione. È questo il premio più importante.
Lei è stato 'provinato' in carcere da Paolo e Vittorio Taviani, così come gli altri detenuti…
"È stato il canto di Paolo e Francesca che recitavo in napoletano ad entusiasmare… mi hanno subito visto nei panni di Cassio. L’episodio infernale di Dante mi è valso il ruolo di protagonista nel film Cesare deve morire".
Da quanto tempo recita?
"Sono 12 anni che facciamo teatro a Rebibbia, ma la mia passione per il teatro è precedente… c’è sempre stata. Ero solo un ragazzo quando mia madre mi accompagnò al mio primo casting. Andò anche bene, peccato che ci chiesero soldi. Una 'truffa napoletana', niente di più… Adoro le commedie di Eduardo De Filippo e Natale in casa Cupiello è stata la prima che abbiamo messo in scena a Rebibbia. Ci siamo guadagnati uno stanzone per le prove e l’applauso del direttore, Carmelo Cantone, un uomo straordinario che crede profondamente nella funzione rieducativa del carcere.
Cosa significa per lei il teatro?
"Il teatro in carcere diventa una terapia. Apre alla comunicazione attraverso un linguaggio diverso da quello 'malavitoso'. Recitare porta a un’analisi della propria anima... Per me è stato terapeutico. Sono riuscito a fare i conti con me stesso, ho imparato ad accettarmi e a volermi bene. Ho imparato a comprendere gli altri. A non giudicarli. Il mio sogno? Quello di riuscire un giorno a formare una compagnia di attori composta da detenuti ed ex detenuti. L’arte per chi ha commesso gravi crimini diventa non solo uno strumento di crescita e rinascita ma può essere anche uno strumento di lavoro per il futuro. Una speranza in più".