Giorgio Locatelli: «Vi racconto i gusti di Re Carlo»
«Ha la passione per i miei tortellini, ne mangia sempre due porzioni, preferisce il pesce e sapori mediterranei». Lo chef Giorgio Locatelli rivela le scelte reali nel menù della sua Locanda stellata di Londra. E un segreto: «Ogni anno porto a corte un tartufo bianco, lui ne va matto».
«Vengo da un villaggio di mille abitanti, Corgeno, in provincia di Varese. Immaginate l’emozione quando mi sono trovato un re alla mia tavola». Giorgio Locatelli, 60 anni, chef con ristorante stellato a Londra (e alle Bahamas e Cipro), giudice a MasterChef Italia (show Sky Original prodotto da Endemol Shine Italy e Sky alla tredicesima edizione), sa bene che parleremo anche di questa «confidenza» con i reali inglesi. Anzi, partiamo da qui.
Manda ogni anno un tartufo bianco a Carlo?
«Vero, e lui mi ringrazia cortesemente, con una lettera scritta a mano che conservo tra le cose più care. Ma mi faccia raccontare perché gli mando il tartufo».
Prego.
«La storia parte da Antonio Carluccio, micologo e pioniere della cucina italiana a Londra. Aveva un ristorante e riforniva di funghi Buckingham Palace. Andato in pensione, continuò a portare ogni anno non i funghi, ma un bel tartufo bianco al principe Carlo. Antonio è morto da cinque anni, la tradizione è passata a me. Ma Carlo, ora re, è suo cliente, non si limita al tartufo a palazzo. Fu ospite la prima volta alla mia Locanda qualche anno fa. Con Camilla, William e Kate Middleton, Harry e la fidanzata di allora, Chelsy. Ogni tanto Carlo e famiglia arrivano, siedono al tavolo numero 11, sempre pronto».
Ancora non si è seduto da re.
«Ancora no, ma i re a Londra non sono rari. Per l’incoronazione di Carlo ne ho avuto ben tre ai tavoli».
Carlo è vegetariano?
«Da me mangia tortellini in brodo, due portate, specialità alla quale fa onore pure Camilla. Il re evita piatti di carne veri e propri, ma non disdegna il pesce, né il brodo di proteine. Carlo è intelligente, parlava già vent’anni fa di cibo organico, cosa di cui si riempiono la bocca i politici di oggi. Ha dimostrato di saperci fare come imprenditore: in Cornovaglia ha mandato avanti l’azienda biologica Duchy Home Farm facendo ragguardevoli profitti. Eppure in Italia era considerato un pennellone, in perenne attesa del trono.In Italia si prendevano le parti di Diana, più mediatica. Non ci fosse stata la tragica fine della principessa, Elisabetta avrebbe abdicato a suo favore. Da re sono sicuro che farà bene».
Chi cucina per lui?
«Il cuoco di Buckingham Palace, Darren Mc Grady, molto bravo. Quel palazzo richiede una cucina di eccellente livello, per i banchetti in onore di personalità. Tutto deve marciare senza intoppi. Carlo e la regina Camilla si intendono di vini e cucina, amano quella italiana e mediterranea».
Avrebbe immaginato di raggiungere livelli così elevati?
«Vengo da una famiglia di ristoratori, da ragazzino facevo besciamelle e macedonie per i banchetti della domenica. Davo una mano a fratello e cugini. A sentire mamma, oggi arzilla 88enne, ero poco malleabile. Poi ho fatto l’alberghiero, lavorato al Passatore di Varese, e non dico la tragedia. Lavoravo per la concorrenza, ero un traditore. Mia zia non mi parlò per anni».
Cose del passato, l’aspettava il mondo.
«Finito il servizio militare, obbligatorio, andai in Svizzera, a Zurigo. Ma il chiodo fisso era entrare al Savoy di Londra, dove aveva lavorato il grande Auguste Escoffier. Avevo letto un suo libro, pieno di fotografie».
L’obiettivo individuato è mezza vittoria.
«Insomma. Feci domanda, mi chiamarono al Savoy, mi dissero di aspettare il mio momento. Si sarebbero fatti vivi. Tornare in Italia? Manco per sogno. In attesa, mi misi a lavorare con degli italiani. Ma allora ci si doveva formare in Francia, l’haute cuisine era solo francese».
Oggi no?
«Oggi i francesi vengono in Italia a formarsi. Gli hotel di lusso non hanno più il ristorante francese, ma quello italiano.Poi il Savoy le aprì le porte.E mi venne in mente mia nonna. Quando le rivelai che volevo diventare cuoco si mise a piangere. Cosa ti salta in mente, disse, i cuochi sono tutti matti, ubriachi, la cucina è per i disperati».
Lo dica ai concorrenti di MasterChef.
«Uno è avvocato, l’altro medico, poi c’è un giurista. Gente che un tempo la cucina neanche l’avrebbe guardata. La televisione, accendendo i riflettori sul nostro mondo, ha fatto bene. E un po’ male. Lo spettatore non vede le 16 ore di lavoro al giorno, senza una festa, necessarie per diventare bravi chef. Io non ricordo un Natale senza lavoro».
Problema del personale. Ci dice qualcosa?
«Siamo in crisi, soprattutto a Londra. Per colpa della Brexit. Gli inglesi dicono che dentro ogni nube, pur minacciosa, c’è un po’ di argento. Ecco, nella nube Brexit l’argento non c’è. Ha complicato le assunzioni, i permessi di soggiorno, ci sono problemi per le materie prime».
Non è anche un problema di basse paghe?
«Pago come minimo 14 sterline l’ora. È un problema di motivazione. Se pensi di crescere, la fatica non ti pesa. Certo Londra, come Milano, è cara. Un lavoratore trova casa in periferia e, a Milano, non ci sono mezzi pubblici di notte. Nonostante tutto, credo che il futuro più che dei cuochi sarà della sala. Aver cura delle persone, compito del cameriere, è importante. Un cliente torna, anche se una volta il piatto era un po’ salato, la pasta troppo cotta. Ma se ne sta alla larga se il servizio è stato incerto o scortese».
Bella l’esperienza MasterChef?
«È la mia quinta edizione. Avevo lavorato cinque anni per la Bbc, in un programma di cultura e arte del mangiare. Arrivata l’offerta dall’Italia, l’ho presa come una sfida. Ho pensato che potevo permetterlo. In Italia c’è più calore, la gente ti salta addosso. Non passa giorno che non mi chiedano di fare dei selfie. Benissimo, ma a volte rompono le scatole».
La famiglia è importante?
«Fondamentale. Senza mia moglie non avrei raggiunto i nostri obiettivi. Locanda Locatelli ha cucina italiana, ma servizio inglese. Poi mia moglie mi fa ancora morir dal ridere, vuol dire che ci amiamo».
E sua figlia Margherita cosa le ha insegnato?
«Marghe ha 25 anni, lavora a Roma alle Nazioni Unite. Se mangiasse una nocciolina, o un pesce, avrebbe una reazione anafilattica che potrebbe farla morire. Una maledizione per chi è nato in una famiglia di ristoratori. Ciò mi ha spinto ad accordare la buona cucina con le limitazioni più severe. Pensare che da ragazzo mandavo mentalmente a quel paese i clienti che dicevano di essere allergici all’aglio, ai frutti di mare o altro. Mi sembravano gran scocciatori».
Sua madre viene mai a Londra?
«Mai. La invito, risponde che è tanto occupata e non può allontanarsi. Deve bagnare i fagioli nell’orto, dare istruzioni alla persona che l’aiuta in casa. Mi dice: Giorgio, non sono mica come te, che non hai nulla da fare. Vado a trovarla io. Da Londra la chiamo ogni sera, all’ora del tè. I miei collaboratori mi guardano stupiti. Ma come sono mammoni questi italiani, pensano».
Non apre un ristorante in Italia?
«È il mio prossimo progetto, sarà vicino al mare».
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