In Italia non si cucina più (e spopolano i delivery)
Secondo uno studio gli italiani stanno sempre meno ai fornelli, colpa dei millenial, dando vita al boom delle consegne a domicilio (anche stellate)
Trentasette minuti. Quanto basta a mantecare una carbonara decente, spadellare un trancio di tonno, preparare nulla di troppo elaborato. È il tempo medio quotidiano speso l’anno scorso dagli italiani per cucinare: 23 minuti in meno di due lustri fa, un calo di quasi un’ora e mezza rispetto al 1998.
In vent’anni si è spalancata una differenza che è un abisso, è l’indice di un radicale cambio d’abitudini. Lo dice una ricerca della Fipe, la Federazione italiana pubblici esercizi, che nel nome stringe gli insoliti sospetti, le molle della rivoluzione in corso: «In 10 anni, nonostante la crisi, la spesa per la ristorazione ha fatto registrare un incremento medio del 17 per cento» snocciola Luciano Sbraga, direttore dell’ufficio studi della Federazione. «Su 100 euro che una famiglia spende per mangiare» aggiunge «36 li investe fuori casa. Al bar, in pizzeria, in trattoria».
Tiene dunque, anzi si fortifica, il rito di accomodarsi a una tavola non propria e pescare le pietanze da un menu. Ma è solo un tassello che spiega la grande fuga dai fornelli: erano 24 mila nel 2008 gli esercizi che offrivano cibo da asporto, oggi sono più di 33 mila. Servono 30 milioni di italiani, che ritirano nei locali la pappa pronta o se la fanno portare a domicilio ordinandola per telefono o via internet. Alimentando un mercato in ebollizione, quello del food delivery, che vale e muove circa 3,2 miliardi di euro.
Così la cucina, da cuore ed emblema del focolare domestico, per molti è diventata una sua appendice. Un luogo di transito, di rapido passaggio, in cui impiattare qualcosa di preparato altrove. Perché quei 37 minuti tengono dentro le madri di famiglia e gli aspiranti chef come la generazione «zero minuti», quella responsabile di tirare giù la media: l’inquieta generazione dei Millennial, degli under 35 sempre stressati, impegnati, che all’università o in ufficio divorano cibo precotto davanti ai libri o alla scrivania. E quando sono a casa, se lo fanno recapitare da un fattorino sull’uscio, dopo averlo scelto da una app sullo smartphone, strumento con cui hanno confidenza assoluta.
I Millenial rappresentano il 60 per cento dei clienti di Just eat, il leader del settore in Italia con circa 10 mila locali partner in oltre 900 comuni: «Hanno poco tempo, sono nomadi, spesso sono studenti fuori sede» conferma Daniele Contini, country manager dell’azienda nella Penisola. Per accontentare loro come qualsiasi patito del food delivery (anche l’altro 40 per cento di over 35), le si prova tutte, senza barriere temporali: Glovo, nel 2018, ha registrato un aumento del 409 per cento di ordini tra le 19 e le 22 e del 349 per cento di colazioni mattutine: non scaldiamo più nemmeno un toast o il latte al risveglio.
Deliveroo ha lanciato a Milano, Bologna e Roma il servizio notturno, che va forte in particolare nel weekend. La spaghettata di mezzanotte è fuori moda. Ora il pasto fuori orario suona al citofono. In generale, il cibo a domicilio non è più sinonimo di pizza unta, fritti gommosi e hamburger che sono l’apoteosi del grasso.
Ad affermarsi con prepotenza è il sushi, che ha fatto breccia negli appetiti degli italiani. Solo su Just eat, in un anno, le richieste di pietanze giapponesi sono cresciute del 100 per cento. Piatti prediletti, nell’ordine: nigiri sake, edamame, uramaki philadelphia, sashimi al salmone. I ristoranti che li consegnano sono aumentati dell’80 per cento. «Si tratta di alimenti che si prestano particolarmente al trasporto, non lo soffrono. Vanno consumati freddi e perciò funzionano anche nei mesi festivi» dice Contini.
Online c’è l’imbarazzo della scelta in salsa nipponica: su Deliveroo, per esempio, sono disponibili i brodi di Zazà ramen o le creazioni di Fusho, che avvolge il classico sushi in un burrito messicano. Ulteriore mannaia che pende sulla cucina, è il progressivo innalzamento degli standard del food delivery. «Abbiamo deciso di eliminare tutti i locali che non garantiscono una qualità medio-alta, stiamo cercando nuovi zaini termici che garantiscano una migliore tenuta del calore, altri invece refrigerati per il pesce crudo e il gelato» racconta Gianpaolo Sacconi di Moovenda, servizio attivo a Roma e a Napoli.
All’estero questo paradigma sta già diventando tendenza: a Londra opera Supper, che recapita i piatti di alcuni dei migliori ristoranti della City, inclusi alcuni inseriti nella guida Michelin. Siamo appena all’inizio.
«La cucina casalinga sta per sparire» sentenziava pochi mesi fa il celebre designer francese Philippe Starck. E la sua profezia apocalittica trova conferme nel rapporto della banca svizzera Ubs, che prevede, entro il 2030, una mastodontica crescita del cibo consegnato a domicilio: dai 35 miliardi di dollari annui attuali su scala globale, a 365 miliardi ogni 12 mesi. Oltre dieci volte di più. Titolo dello studio: «La cucina è morta?».
Quesito assai legittimo, giacché in futuro «il costo totale della produzione e della consegna» si legge nel documento «potrebbe essere pari al costo del cibo preparato in casa. O più conveniente, se si considera il fattore tempo». La passione di farsi una ricetta da sé non rientra nei surgelati parametri econometrici.
Ecco: prima il commercio elettronico ha fatto strage di negozi fisici, poi applicazioni come Uber hanno sfidato e tramortito i taxi (almeno all’estero), la prossima vittima della app economy potrebbero essere i fornelli domestici. In metropoli come Hong Kong o Tokyo, in cui ogni metro quadrato vale platino, ci sono abitazioni senza cucine. Letto, armadio, bagno, tavolino e stop.
Nei quartieri fighetti degli Stati Uniti, da Williamsburg a Broooklyn a Melrose a Los Angeles fino a SoMa a San Francisco, si moltiplicano gli spazi di «coliving»: stanze private in edifici i cui inquilini condividono frigoriferi, forni e dispense con altri sconosciuti, pur di risiedere in zone dagli affitti stellari. Un approfondimento trasmesso dalla radio americana Npr e ripreso dal quotidiano The Guardian, paragona il mutamento sociale in atto alla Russia sovietica. Per varie decadi successive alla rivoluzione del 1917, sette o più famiglie vivevano stipate in appartamenti con un’unica affollata cucina per tutti gli occupanti.
La frenesia da consumo e le ansie da status symbol del capitalismo ci stanno riportando indietro all’austerità del comunismo. I condomini senza cucine o con una soltanto, da paradigma inaccettabile, stanno diventando una prospettiva desiderabile. Forse, inevitabile.
© riproduzione riservata