- Centri di pseudonutrizione gestiti da abili guru, che impongono ai seguaci diete insensate e vendono prodotti finto-salutari. Lo testimoniano i «pentiti» che hanno rischiato la vita adottando metodi estremi per restare magri e sani. E le inchieste giudiziarie che cercano di combattere queste incredibili, e sempre più diffuse, truffe alimentari.
- Delivery: a tavola con il Grande Fratello
Pier Francesco Colizzi aveva 56 anni. È morto lo scorso luglio nelle Marche per sospetto Covid-19. Eppure, secondo il fratello Alessandro, regista di successo, a determinare quel decesso sarebbe stato anche altro. «Da quando approdò alla corte di quell’organizzazione la sua vita ha avuto una svolta clamorosa» racconta. L’organizzazione di cui parla è Un Punto Macrobiotico, nel 2018 al centro di un’inchiesta e di un clamore mediatico che la battezza setta macrobiotica. Tutto ruota intorno alla figura del fondatore Mario Pianesi. Pier Francesco Colizzi lo conosce nel 1995, quando si trasferisce con la moglie nelle Marche.
«Mio fratello» continua Alessandro «aveva una storia tormentata alle spalle, e quando ha conosciuto Upm è cambiato. Ricordo ancora le nostre litigate furiose. Gli avevano detto che la sua malattia era legata a quello che aveva fatto, e mangiato, fino a quel momento. Così, dopo l’incontro con Pianesi, lasciò la musica».
Se la questione processuale di Pianesi al momento si è conclusa con un patteggiamento a un anno e otto mesi per violenza privata – mentre alcune delle accuse più dure, a cominciare dalla riduzione in schiavitù, sono cadute e altre, come l’esercizio abusivo della professione medica, sono ancora in piedi -, alle sue spalle restano decine di testimonianze.
Come quella di Mauro Garbuglia, per 30 anni all’interno di Upm e per buona parte di questi segretario personale di Pianesi. «Sembrava un paradiso, invece era un inferno» riflette Garbuglia. «Le diete praticate erano cinque e tutte rigorosissime. Si andava da un’alimentazione a base solo di riso integrale a quella più abbondante, che includeva anche un po’ di carne bianca. Vietatissimi per tutti pomodori, caffè, dolci, patate, latticini o melanzane». Riducendo l’alimentazione, si perdeva peso in modo drastico. Fino a diventare poco più che scheletri.
Claudia Biffi, la prima a denunciare, arrivò a pesare 35 chilogrammi. «Ma agli affiliati veniva chiesto anche di adoperarsi fattivamente nei centri di vendita dei prodotti macrobiotici e dei ristoranti Upm. Così il gruppo si è accresciuto anche e soprattutto economicamente grazie al lavoro sottopagato o non pagato degli affiliati» puntualizza Francesco Alagna, vicepresidente dell’Osservatorio nazionale abusi psicologici (Onap) e difensore di fiducia delle persone offese nel procedimento penale che vede coinvolto Pianesi e i suoi più stretti collaboratori. «Ai frequentatori di Upm – aggiunge Alagna – poi veniva prospettata la possibilità di guarire da malattie anche molto gravi grazie alle diete battezzate Ma.Pi. che presupponevano la rinuncia ad ogni cura medica e farmacologica da parte dei malati». Esattamente come racconta nel suo libro-verità Dentro la psico-setta macrobiotica (Edizioni Nisroch) proprio Garbuglia. «Ricordo le privazioni alimentari in virtù di dogmi assolutamente opinabili» conclude Colizzi. «Il sacchetto di sale fuori dalla porta per tenere lontane le energie negative, il divieto per le donne di lavarsi durante il ciclo e l’obbligo di posare a terra, la mattina appena svegli, il piede sinistro. Mi sembra impossibile. Ma mio fratello ha vissuto, ed è morto, seguendo questi paradigmi». Tutte accuse che Pianesi e i vertici di Upm respingono al mittente. D’altronde, senza una condanna nessuno può essere ritenuto colpevole di nulla.
Esattamente come nel caso di Adriano Panzironi che con il suo Metodo Life120 promette una vita lunga fino a 120 anni. La ricetta di Panzironi è semplice: un regime alimentare utile a prevenire e curare patologie come diabete, Alzheimer e cancro supportato da integratori (prodotti dall’omonima azienda con prezzi che partono dai 40 euro). La dieta si basa su proteine animali e suggerisce di eliminare i «cinque mali bianchi» ovvero farina, zucchero, riso, sale e latte. Per diffondere il suo verbo, Panzironi negli anni ha utilizzato massicciamente le sue trasmissioni (sospese diversi mesi fa per volere dell’AgCom). Nonostante le denunce, il 49enne giornalista romano a gennaio ha inaugurato una sede ad Ancona (dove afferma ci sarebbero 500 famiglie che seguono la sua dieta) e a breve ne aprirà un’altra a Udine.
Oggi Panzironi è a processo a Roma per esercizio abusivo della professione: lui, giornalista, secondo l’accusa si è di fatto comportato come un medico. L’indagato respinge le accuse, per quanto le testimonianze restino ancora una volta a svelare drammi intimi (che non sempre corrispondono a quanto perseguibile per legge). Emblematico il racconto esclusivo di Angelica, che preferisce restare anonima: «Soffrivo di una sindrome artrosica alla mano e, dopo aver visto Panzironi in tv, ho iniziato a seguirlo. Ho speso migliaia di euro per i prodotti che consigliava. Sono arrivata a 44 chilogrammi. Partivo da 80. Negli ultimi mesi stavo sempre peggio. Fino a quando non sono stata ricoverata d’urgenza. E ho pensato di morire».
Un sentimento frequente fra i fuoriusciti che, dopo aver toccato il baratro, decidono di cambiare vita. La paura di raccontare il proprio vissuto resta, proprio come accade con le psicosette, una costante. Esattamente come la capacità di adeguare i messaggi ai tempi che corrono.
«Ultimamente vanno per la maggiore i cosiddetti movimenti del potenziale umano, che suggeriscono cambiamenti alimentari per realizzare una nuova cultura del corpo, inteso come il luogo in cui abita la mente delle persone di successo. Molto popolare è un regime alimentare per potenziare il cervello e le abilità di memoria, velocità di elaborazione, lucidità, capacità decisionale, creatività e gestione delle emozioni» riflette la psicologa clinica e forense, presidente del Centro studi abusi psicologici (Cesap), Lorita Tinelli. «Alcune restrizioni alimentari sono suggerite sulla base di teorie pseudoscientifiche, attribuendo così al cibo significati e poteri curativi. Spesso anche i bambini vengono coinvolti dai genitori in queste diete estreme basate sui principi del complottismo pseudoscientifico».
Fra i gruppi più estremi spiccano i respiriani, che sostengono di poter vivere senza toccare cibo, ma godendo solo di aria, luce ed energia pranica. Secondo uno dei membri più convinti, Thomas Pilartz, sono nel nostro Paese «qualche migliaio sicuro» e si riuniranno nuovamente a luglio per l’annuale World Pranic Festival a Fabriano.
I più goliardici sono invece i seguaci del pastafarianesimo, fondato nel 2005 negli Stati Uniti e diffusissimo online, ma ci sono stati anche cortei «dal vivo in Italia; gli adepti si dichiarano in adorazione del Prodigioso Spaghetto Volante, si vestono da pirati e venerano «pasta e birra» che considerano essenza stessa del Divino, assumendo come modo di vivere gli «otto condimenti», ovvero una lista di comandamenti che vanno dal rispetto dell’altro alla necessità «di avere sempre la pancia piena».
«In questi anni» spiega la nutrizionista Tiziana Stallone, presidente dell’Enpab, «tantissimi sono i guru che hanno sfruttato l’atto nutritivo, ovvero un bisogno primario, per controllare le persone. Guru come quelli balzati ciclicamente alle cronache, ma anche affabulatori nelle palestre capaci di creare intorno a loro piccoli gruppetti di seguaci». Sono, questi, microcosmi che difficilmente balzano all’onore delle cronache. «Che il rapporto sia one-to-one o che si crei una situazione di gruppo le logiche sono le medesime, e molto pericolose. Penso per esempio agli uomini e alle donne che inducono all’anoressia. Ricordo ancora una mia paziente che, a causa di un compagno di questo tipo, aveva annullato la sua sicurezza ed era finita all’ospedale» ragiona ancora Stallone.
Una situazione simile a quella raccontata da Matteo Garrone nel film Primo Amore, ispirato al romanzo autobiografico di Marco Mariolini Il cacciatore di anoressiche, dove l’autore, nel 1997, raccontava la sua parafilia verso le donne scheletriche. Si focalizzano sempre sui disturbi dell’alimentazione le cyber-sette Pro-Ana (pro-anoressia) e Pro-Mia (pro-bulimia) che operano nel dark web, ma anche in blog che utilizzano linguaggi criptati, profili instagram e TikTok in cui, in barba a qualsiasi forma di benessere, si osannano modelle scheletriche e demonizzano carboidrati.
«Con alcune mie amiche» racconta Alice, 18 anni appena compiuti e il sogno di diventare modella «avevamo iniziato a seguire dei blog pro-Ana. Dopo poco sono stata invitata a fare un test in cui mi si chiedeva quante volte mi pesassi al giorno, quanta attività fisica facessi e quale importo calorico assumessi quotidianamente. Io mangiavo pochissimo, una o due mele, e venni prima osannata per la mia capacità di controllo, dunque aggiunta da un’altra utente in un gruppo su WhatsApp. Era un mondo assurdo che mi fece subito paura. Si trattava di una specie di setta dove ci si confrontava dalla mattina alla sera su trucchi per non sentire la fame, o consigli per dimagrire ancora più velocemente».
Il camaleontismo di queste organizzazioni è progidioso. «Le casalinghe» riflette Lorita Tinelli «sono per esempio gli obiettivi principali di alcuni gruppi che sostengono regimi dietetici a base di bustine o bibitoni. In realtà queste comunità sono uno strumento per far avvicinare dei potenziali adepti a strutture multi-level che propongono l’ideologia del benessere con l’adesione incondizionata alle regole del gruppo. Con slogan irrealistici e pozioni magiche si avvicinano così persone che poi diventeranno sostenitrici inconsapevoli del cosiddetto schema Ponzi».
L’ennesimo esempio di una sorta di maledetta catena del (finto) benessere, il cui paradigma potrebbe essere sintetizzato con un cinico «cibo che indichi, adepto che trovi».
Delivery: a tavola con il Grande Fratello

Il business del cibo a domicilio nell’ultimo anno è raddoppiato. I colossi del settore sanno (e decidono) tutto, grazie ai loro potenti algoritmi: dalle scelte dei clienti ai tempi di cucina e di consegna, dai contratti di fattorini e ristoratori alle commissioni e alle penali. E, alla fine, a rimetterci è la tradizione italiana di qualità.
di Carlo Cambi
Aggiungi un posto a tavola, c’è un convitato inatteso. A condire la pasta sono i big data per sapere cosa desideriamo e cosa consumiamo, perché l’informazione rende più della pozione. Per avere un’idea, in Italia il mercato del delivery è raddoppiato in un anno: da 750 milioni a 1,45 miliardi di euro. E non conosce battuta d’arresto. Chi comanda è il poker d’assi: Deliveroo, Just Eat, Glovo/Foodora, Uber Eats. A dire che il cibo a domicilio è uno dei più macroscopici effetti collaterali del virus cinese è un’inchiesta della Procura della Repubblica di Milano. Ha esaminato la posizione dei fattorini (se preferite l’anglicismo, rider): sono 60 mila che devono avere un regolare contratto. Un anno fa non arrivavano a 12 mila. E in realtà un tentativo d’inquadrarli c’è stato. Ma l’unica cosa che si è capita è che i fattorini dipendono da un algoritmo.
È l’algoritmo che dà gli incarichi, indica i percorsi, scandisce i loro tempi di lavoro e di consegna. È il grande fratello. Che è entrato anche in cucina. Vediamo come. I ristoratori, fiaccati da un anno di chiusure forzate, gridano nelle piazze la loro disperazione. Stanno difendendo le loro imprese, ma anche la nostra cultura gastronomica. Sotto attacco da tutti i fronti.
Chi può tra i piccoli ristoranti si è organizzato con l’asporto, ma ha scoperto che si coprono i costi a malapena. E allora meglio associarsi a una grande catena che gestisce gli ordini, consegna a domicilio e forse dà un po’ di respiro economico. Il rischio però è quello di ritrovarsi incatenati. Ne sanno qualcosa i ristoratori fiorentini che per primi hanno denunciato i contratti con le società di delivery. Non ci stanno dentro perché le commissioni sono troppo alte, perché i tempi di consegna imposti (si pagano penali se si fa tardi) sono ingestibili. Tutto è scandito dall’algoritmo.
Non tutto il delivery è però uguale: ci sono le piccole organizzazioni che fungono da aggregatore di domanda e hanno commissioni intorno al 20 per cento, si rivolgono a tanti ristoranti e organizzano, quasi fossero radiotaxi del cibo, le consegne. Poi ci sono i colossi. Che gestiscono tutto: dettano i tempi alla cucina, organizzano la consegna, fanno la gestione dell’ordine. E annotano le scelte dei clienti profilandole. Questo è il vero business perché come tutti i big del web gestiscono i dati, ma hanno uno straordinario punto di forza: dimmi come mangi e ti dirò chi sei. E magari lo dicono anche ad altri. Guadagnandoci. Incamerano oltre il 30 per cento di commissioni. A New York due anni fa fece scandalo la denuncia del Mulberry&Wine che dichiarò: «Ci prendono fino al 40 per cento, più ci ordinano più rimettiamo». È vero però che Just Eat – ha un sistema di commissioni a scalare – e Glovo hanno deciso in tempo di pandemia di tagliare le commissioni fino ad azzerarle facendo pagare solo il costo di consegna. «Una cosa è certa» dice a Panorama Francesco Cerea, uno dei fratelli che mandano avanti Da Vittorio a Brusaporto, ristorante con tre stelle Michelin da decenni. «Il delivery è incompatibile con la cucina italiana di qualità. L’asporto fatto dal singolo ristorante è un palliativo alla crisi, ma se diventa produzione seriale non si può fare con la cucina italiana!». Ancora più severo il giudizio di Gianfranco Vissani, tra i più noti cuochi italiani: «Il delivery è una catena di montaggio del cibo, i menu sono standardizzati e devono invertire il processo di formazione del gusto: non si cucina ciò che piace, ma deve piacere ciò che si propone. Moltissimi piatti sono incompatibili con l’asporto, figurarsi col delivery. E poi va posta la questione igienica: siamo sicuri che il cibo arrivi a destinazione nelle migliori condizioni?».
Una domanda, questa, che lo scorso novembre si è posto Altroconsumo – mensile dei consumatori – che ha fatto un’ampia indagine. Risultato? I prezzi sono sostenuti, non c’è garanzia sugli allergeni e in fatto di contaminazione batterica 23 porzioni su 60 avevano livelli tali da suscitare attenzione, così come le temperature di servizio. Del report mandato al ministero della Salute non se ne è saputo più nulla. Ma il punto è cosa sta succedendo con i menu e nella ristorazione. A spiegarlo è Just Eat, che per primo è sbarcato in Italia nel 2011 e ha al suo vertice il capo dei rapporti con la clientela Peter Duffy, che è riuscito a portare a termine l’affare del secolo: la società danese è stata comprata da Takeway.com per oltre 7 miliardi di euro. Ebbene, Just Eat in tutti i Paesi sonda i gusti del pubblico, poi li raggruppa in report che diventa oro. L’impresa per la consegna del cibo sa tutto degli italiani a tavola dividendoci per professioni, residenza, opzioni di vita. Bastano due esempi. Just Eat conosce perfettamente che cosa e a che ora ordinano gli studenti universitari. Gli aspiranti informatici, medici e ingegneri sono i più assidui e mangiano di solito kebab e hamburger, le studentesse, le più fedeli clienti, preferiscono la pizza. Chi studia chimica o economia mangia di notte e di solito cinese e gelato. L’app Just Eat tra gli studenti, via Google o Apple, è cresciuta del 75 per cento in anno.
Da questo osservatorio privilegiato si scopre inoltre che abbiamo smesso di mangiare italiano: consumiamo hamburger (sono il 41 per cento degli ordini), panini e piadine (29), sushi, cinese e il poke (il piatto polinesiano di pesce, verdure e riso) che è diventato un cult. Volendo, possiamo sapere anche le professioni e i momenti in cui si ordina (in testa ci sono i professionisti del digitale in un cortocircuito tutto virtuale). Ma questi dati cambiano anche la ristorazione? Una risposta viene da Uber Eats, altro colosso nella galassia Uber che ha inventato i ristoranti fantasma. Sono cucine senza marchio, catene di montaggio del cibo che lavorano solo per produrre i menu da asporto, ridottissimi nelle opzioni e studiati secondo gli algoritmi delle ordinazioni.
Ecco: questo è il futuro che temono i ristoratori, fiaccati da un anno di chiusura. Paolo Bianchini – presidente del Mio, Movimento imprese ospitalità aderente a Federturismo – che ha animato le proteste dei cuochi ne è sicuro: «Noi vogliamo il blocco delle licenze perché le grandi società di delivery stanno cercando di trasformare i loro fornitori in contoterzisti. Se va così perdiamo la ristorazione e la cultura del cibo a tutto danno della nostra agricoltura. In questi mesi di fermo forzato tante pizzerie si sono trasformate in laboratori fantasma che lavorano solo per soddisfare le richieste di chi organizza il delivery».
La pizza resta il cibo da asporto più richiesto nel mondo. L’inglese MoneyBeach con Google ha tracciato il delivery mondiale in epoca di pandemia. Ne è emerso che in 44 Paesi su 100 (Italia compresa) la «margherita» e affini sono le più ordinate. Quindi c’è il take away cinese; al terzo posto il sushi e al quarto qualsiasi cosa sia fritta. Perché ormai il cibo non si sceglie, ma è il grande fratello che ce lo ordina.