La bevanda nazionale si arricchisce di nuove sfumature. Quelle dei chicchi che, dalla pianta in lontani Paesi tropicali alla tazzina del bar (o di casa), ricevono attenzioni e severe selezioni per renderli riconoscibili e rintracciabili, decisamente speciali nella genesi e nel gusto. Non a caso si chiamano «specialty coffee». E dopo aver sfondato all’estero si stanno diffondendo anche in Italia.
Per la maggior parte delle persone il caffè è quella sostanza amarognola che si trangugia per riattivare le funzioni vitali, all’occorrenza. Se proprio si vuole diverso lo si chiede lungo, ristretto, corretto, macchiato, mocaccino, marocchino e via elencando, ma la base, il caffè, rimane quasi in secondo piano, basta che sia «buono». Qualcosa, però, sta cambiando. Da anni cresce una consapevolezza della qualità che si potrebbe ormai definire «cultura del caffè», e ricalca quanto accaduto in passato con il vino, l’olio, il tè e tanti altri alimenti.
Si organizzano corsi di avvicinamento al tema, si inaugurano accademie (come la recentissima «del Caffè Napoletano», con le maiuscole a suggerire la deferenza con cui va pensato), si fanno gare per baristi, tostatori e altre figure che ruotano intorno a questo mondo. E nascono bar dove la bevanda non è più la scusa per un break, ma il fine di una sosta che vale la degustazione. Insomma, in questa repubblica fondata sul «pure in carcere ‘o sanno fa’», come cantava De André, si assiste all’ennesima evoluzione del gusto. Punta di diamante di questa tendenza sono i caffè più ricercati: dalla pianta alla tazza ricevono cure, attenzioni e severe selezioni che li rendono riconoscibili e decisamente speciali.
Non a caso si chiamano «specialty coffee» e si trovano sempre più diffusamente in commercio. Si riconoscono perché li accompagna una sorta di carta di identità che ne rivela la provenienza fino allo specifico appezzamento e fattoria, dice chi l’ha coltivato e a quale altitudine, a volte addirittura chi l’ha raccolto a mano. Se ne indicano la specie, la varietà, il metodo di essiccazione e l’intensità di tostatura. Un’attenzione che neanche nelle cuvée di champagne.
Il lungo percorso degli specialty parte dal «terroir» (come per il vino), dove le condizioni naturali permettono lo sviluppo della migliore «drupa», quella sorta di ciliegia che cresce a grappoli e nasconde due chicchi per frutto. Per diventare caffè, dopo essere estratti, i chicchi vengono essiccati. Sono verdi, e solo grazie alla torrefazione che li abbrustolisce a una temperatura di 200-220°C (per far salire in superficie olii e fragranze) diventano marroni come li conosciamo.
Gli «speciali» sono soltanto di qualità arabica, che cresce ad altitudini elevate ed è più ricca di sfumature rispetto alla robusta (che in Italia è molto amata), di cui contiene meno caffeina. Altre caratteristiche sono che la raccolta è fatta a mano, i chicchi hanno pochissimi difetti minori e a un primo assaggio degli esperti (il cosiddetto «cupping») devono ricevere un punteggio non inferiore a 80 su 100. Nella filiera della qualità poi c’è il passaggio della torrefazione, che in questo mondo di eccellenza si trasforma in una piccola arte.
Da anni esiste anche un’organizzazione internazionale (un fenomeno nato oltreoceano) che si occupa di standardizzare la filiera garantendone la qualità: la Specialty coffee association, o Sca. Il suo coordinatore italiano, Alberto Polojac, dice a Panorama: «Da noi si deve ancora sviluppare una vera consapevolezza del caffè, di cui mediamente sappiamo che esiste l’arabica, la robusta e le miscele, come se del vino si sapesse solo che c’è il bianco, il rosso e gli uvaggi. Ma non è facile, questo genere di prodotto è ancora visto come una stranezza». Colpa anche del gusto, che è un po’ diverso da quello cui si è abituati in Italia. La tostatura dello specialty, che non è mai eccessiva per rispettare le peculiarità dei chicchi, risulta più acidula rispetto al classico caffè da bar nazionale che serve magari robusta molto più tostata, risultando nella tazzina in un caffè decisamente corposo e amaro. Nello specialty si cerca un equilibrio tra le due componenti, in modo da esaltare le sfumature, che sono tante: lo Sca ha identificato 108 vocaboli per descriverne più di 800 profili aromatici e sensoriali.
«Vorremmo dare dignità alla filiera» continua Polojac «perché oggi al caffè non è riconosciuto una variabilità di valore, come avviene per quasi tutti i prodotti in commercio che si trovano a diverse fasce di prezzo, mentre la tazzina del bar è ferma alla soglia psicologica dell’euro». E questo anche se ormai sono decine i bar a servire caffè speciali e una quarantina di torrefazioni a produrlo (il libro The Italian specialty coffee guide è la fonte più aggiornata per scoprire gli uni e gli altri). I pacchetti degli specialty sono messi in commercio per preparazioni anche casalinghe, tanto da piccole realtà di appassionati quanto da grossi nomi come Nespresso e Starbucks. Il gruppo Lavazza ha creato una linea – la 1895 Coffee designers by Lavazza – chiamando a raccolta esperti lungo tutta la filiera, dalla coltivazione alla torrefazione: un segno dei tempi che stanno maturando.
E si vede anche sul territorio. «Il nostro bar serve esclusivamente specialty ma quando abbiamo aperto, nel 2016, le cose non andavano per niente bene» racconta Brent Jopson, titolare del milanese Orsonero, uno dei punti di riferimento nazionali in questo mondo. «Per due anni abbiamo fatto parecchia fatica a spiegare perché da noi un espresso costa un euro e 30, ma oggi le cose vanno decisamente meglio e gli affari sono più o meno triplicati, anche se i margini rimangono bassi». Il cliente qui sa di poter trovare miscele e monorigine (i caffè «in purezza», dovendo fare un altro parallelo con il vino), con due nuovi nomi a settimana e alcune certezze, come il marchio Gardelli, noto per le tostature chiare di altissima qualità e dunque l’ideale per i «caffè filtro», di cui Orsonero è stato tra i pionieri in Italia.
«Non essendo caffè concentrato, si sente in tutte le sue sfumature» spiega Brent, canadese che sa bene quanto nel mondo si ami questo metodo di «estrazione» (termine usato per descrivere come si ottiene il caffè: espresso, moka, eccetera). In questo caso si versa lentamente l’acqua calda sul caffè macinato raccolto in un filtro mediamente di carta, facendola finire in una caraffa. Un caffè all’americana insomma (e non «americano», come si chiama da noi l’espresso con aggiunta di acqua), che in Italia non soppianterà mai espresso o moka ma sta trovando il suo pubblico.
«Per gli specialty è arrivato il momento di uscire dalla nicchia e diventare mainstream» è convinto Polojac. «Dare alle persone una bevanda piacevole da bere e che possa essere raccontato nei suoi diversi accenti e nella sua evoluzione, dalla raccolta alla tazzina. Cosa che per altri prodotti è normale, e prima o poi lo sarà anche per il caffè».