Da una parte la produzione legata alle coltivazioni tradizionali, dall’altra l’apertura ad alimenti ottenuti artificialmente. Si fronteggiano due concezioni economiche e, soprattutto, sociali. In gioco, c’è l’autentica dieta mediterranea sulle nostre tavole. Come il futuro di chi nei campi ci lavora.
Il dado (da brodo, in questo caso) è tratto. È in atto uno scontro tra Filiera Italia e Coldiretti da una parte e Unione italiana Food – 530 aziende per 100 mila addetti, 900 marchi rappresentati per 56 miliardi di fatturato – e Confagricoltura dall’altra. La posta in gioco è stabilire chi realmente produce per la dieta mediterranea con la massima identità italiana. La faccenda è seria: il campo di battaglia è il Nutri-score – la famigerata etichetta a semaforo – l’azione è difendersi dai cibi sintetici per evitare che i contadini tornino a essere servi della gleba. È la deflagrazione di enormi interessi planetari con l’azzeramento della democrazia alimentare e dunque della libertà agricola per il venir meno del «dilemma dell’onnivoro», ovvero della scelta del cibo. Quel che potrebbe succedere in Italia è solo l’onda d’urto anche se per noi e la nostra economia è esiziale, visto che dal campo, alla tavola, al turismo, l’agroalimentare muove 580 miliardi di euro.
Lo scontro su «Mediterranea» – è la nuova sigla che unisce Confagricoltura e Unione Italiana Food con a capo Paolo Barilla, vicepresidente dell’omonimo gruppo alimentare, accompagnato da alcune delle più «ingombranti» multinazionali: Unilever, Nestlé, Lactalis, Mondelez, favorevoli al Nutri-score, impegnate nella ricerca e produzione dei cibi da laboratorio come le bistecche artificiali – nasce dal fatto che Coldiretti e Filiera Italia la ritengono fuorviante. Sostiene Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia che riunisce gli agricoltori e i migliori trasformatori italiani a difesa della qualità del made in Italy – «bisogna scegliere: non si possono rappresentare le multinazionali che producono cibi omologati che sono uguali in tutto il mondo e allo stesso tempo le aziende che si battono e custodiscono la distintività italiana». Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, ribatte che l’accordo è finalizzato a mettere in relazione chi coltiva e chi trasforma per la massima profittabilità difendendo il reddito agricolo. Resta però che da una ricerca fatta dal Cnr risulta che il 40 per cento degli italiani abbia abbandonato la dieta mediterranea e quelli che la seguono davvero, sostiene il Crea, sono solo il 13 per cento: costa troppo. Lo sanno bene le multinazionali che sfruttano il «mediterranean sounding» per vendere cibi ultra processati a basso prezzo che sono la prima causa di obesità. Ed è lì che entra in gioco lo scontro di livello planetario.
L’Onu si è fatto convincere sull’onda dell’allarme sul «climate change» e della fame che occorra cambiare le abitudini alimentari e cambiare le pratiche agricole. La Food Foundation, che è finanziata dalla Wbcsd (è l’organizzazione delle maggiori società energetiche mondiali), ha convinto organizzazioni come Oms, Fao e Onu che bisogna arrivare alla dieta mondiale anche attraverso i cibi che non provengono dalla terra. Dicono alla Wbcsd che: «Un recente rapporto sull’industria alimentare ha previsto che la carne bovina prodotta in laboratorio, utilizzando un processo chiamato «fermentazione di precisione», implicherà grandi cambiamenti per l’industria agricola, nonché per la salute umana e l’ambiente. Vasti appezzamenti di terreno agricolo potrebbero essere disponibili per altri utilizzi. Insomma usare la terra per installarci i pannelli e sostituire le proteine mediterranee con gli insetti, le meduse che l’Unione europea autorizza al commercio, mentre lo United States Department of Agriculture ha concesso alle californiane Upside Food e Good Meat di vendere la carne di pollo ottenuta artificialmente in un bioreattore.
Considerando che dieci società multinazionali – fatturano circa cinquemila miliardi di dollari – detengono nel mondo il monopolio alimentare e sono tutte impegnate nella produzione di cibo sintetico, il timore di Coldiretti e Filiera Italia è che per sradicare i contadini dalla terra, o trasformarli come si diceva in nuovi servi della gleba, serva appunto il «mediterranean sounding» e creare nuove emergenze. Per esempio, la mancanza di chi suda la terra. Dichiara Confagricoltura che «anche se le quote per i lavoratori extracomunitari stagionali per il 2024 sono aumentate, resta il timore che ancora una volta il numero delle domande possa superare le quote messe a disposizione». Nel recente «click day» per l’immigrazione non comunitaria regolamentata, l’agricoltura ha ottenuto 41 mila permessi: gli stagionali che raccolgono i pomodori, curano le vacche, si occupano di frutta e ortaggi. Ma se mancano e dunque si coltiva di meno si può sempre ricorrere al prodotto da laboratorio, osannato dalle multinazionali e dall’Europa green, che punisce l’olio extravergine di oliva ed esalta le bibite energetiche. Perciò l’Italia si batte contro la carne artificiali e queste standardizzazioni.
Esiste però un’altra via ed è quella della valorizzazione dell’impresa agricola. Marco Caprai, viticoltore d’eccellenza a Montefalco, in Umbria, e membro della giunta nazionale di Confagricoltura, la vede diversamente: «Non credo che i cibi ultra processati o da laboratorio attecchiranno in Italia, né regge l’affermazione che così si supplisce al fatto che mancherà la manodopera per coltivare. Perché un sistema c’è: basta accogliere chi arriva dal Sud del mondo, pagarlo in modo adeguato e insegnargli il più bel lavoro del mondo: la coltivazione che rende liberi». Per questo suo impegno ormai ventennale, Caprai – nella sua azienda lavorano una ventina di nazionalità diverse – è stato insignito da Sergio Mattarella del titolo di Ufficiale al merito della Repubblica. E ciò che si fa in Italia si fa in Africa.
Federico Vecchioni, amministratore delegato di BF, il maggiore gruppo agricolo d’Italia quotato in Borsa, da anni porta avanti collaborazioni per le produzioni in quel continente che soddisfano il mercato interno e si indirizzano all’export. Il tema, spiega Luigi Scordamaglia, è sempre quello: «Assicurare il reddito a chi coltiva, noi ci battiamo perché il valore sia distribuito lungo tutta la filiera e sappiamo che solo con i prodotti identitari, in questo caso quelli italiani, che compongono la dieta mediterranea, ciò è possibile; la battaglia che non si può perdere è quella che lega il cibo alla produzione agricola». È ciò che fanno ogni giorno i giovani agricoltori, che in un decennio hanno aperto quattromila nuove imprese e gli under 35 nei campi crescono in Italia dell’1 per cento all’anno. Aggiunge Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, che il loro futuro è legato al massimo di tecnologia applicata per produrre il massimo della qualità, per dare sicurezza e democrazia alimentare. Non servono né carne coltivata, né insetti, né meduse, ma i marcatori della vera dieta mediterranea. Che torna così a essere una scelta di vita.