Quegli albi d'oro corrosi dal doping
Si moltiplicano gli scandali, crescono i sospetti e precipita la fiducia nello sport dei tempi moderni. Che ha però ancora una e una sola via di salvezza: pieni poteri alla Wada, l'agenzia mondiale antidoping
La settimana dei veleni e dei sospetti. Suggeriamo, ce ne fosse bisogno, un titolo molto banale per la verità. Ma è così. Il fine settimana chiuderà il Tour de France, con la perversa sensazione che potrebbe essere riaperto in altra sede. Il concetto più pertinente è stato quello espresso da Franco Arturi, vice-direttore e anima rosa della Gazzetta: di fronte a grandissime imprese sportive, come quelle che ha elargito a piene mani il nuovo Re Sole Froome, abbiamo sostituito la voglia di celebrare e lo stupore del fanciullino con il dubbio.
Questo è il cancro dello sport dei tempi moderni. Ma lo era anche di quelli antichi, dalla stricnina di Dorando Pietri al doping di Stato dei Paesi dell’Est europeo, agli occhi gialli di Ben Johnson imbottito di ormoni come una mucca, su (o giù) fin dove volete. Fino a questi giorni, nei quali l’atletica è rimasta una testa - quella coronata di Usain Bolt - senza corpo, dato che il suo principale avversario, Tyson Gay, è stato beccato e con lui la pattuglia degli altri presunti fenomeni giamaicani, con Asafa Powell l’eterno, velocissimo perdente, in prima fila.
Normale come ora anche sul mostruoso Bolt circolino domande, guardando alla ragnatela dei suoi contatti, alcuni dei quali sospetti. Sia chiaro: siamo schiavi consenzienti, per formazione e convinzione, dei capisaldi del diritto. Inderogabile quello della presunzione di non colpevolezza, con onere della prova a carico dell’accusa. In due parole: Froome, Bolt e tutti quelli che non sono stati inchiodati dall’antidoping sono puliti come bambini fino a prova contraria e hanno il sacrosanto diritto di celebrare i loro trionfi, di camminare a testa altissima e di spremere ogni cent possibile agli sponsor.
Ma non si può trascurare l’umore e il rumore della gente che diventa un ululato sulle strade francesi quando passa quella maglia gialla che in Francia è il Santo Graal. Strano, brutto, umano. Perché disumani e inspiegabili dal punto di vista fisiologico sembrano certi gesti tecnici. Questo è il frutto malato dell’amore per lo sport: troppi tradimenti, troppe ferite. Come fai a fidarti ancora? Come fai a fidarti, quando il ripasso gli albi d’oro delle più grandi competizioni, dalle Olimpiadi al Tour, si trasforma in una visita al cimitero, tra una miriade di croci nere sui nomi di quelli che avrebbero vinto sul campo.
Stiamo lontani il più possibile dai cori della demagogia, dall’orrenda espressione “non si può andare avanti così”, che in Italia siamo abituati a coniugare a ogni settore della vita, dal calcio (che i più vedono malato per definizione) alla politica, alla spesa per il pane quotidiano. Il “non si può andare avanti così” è inutile lamento e puzza dannatamente di rassegnazione. E perché rassegnarsi senza combattere fino all’ultimo colpo di spada?
Certo, serve l’Interpol dello sport: tutti uniti sotto l’unica, indipendente bandiera dell’organizzazione mondiale antidoping che già esiste e si chiama Wada (World Anti-Doping Agency) , con gli organismi interni ai vari Paesi svincolati anche e soprattutto economicamente dai Comitati olimpici e sostenuti dai Governi. Questa è la strada. Che ci sia una reale voglia di seguirla è un’altra storia.
Intanto, mentre cala il sipario sul Tour, come in uno spettacolo teatrale perfettamente orchestrato si alza quello dei Mondiali di nuoto. Pronti per nuovi brividi, non necessariamente tutti positivi. Che gli dèi di Olimpia ce la mandino buona.