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(Ansa)
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Stop agli “abusi" contro il cibo italiano, anche se il cliente ha sempre ragione

Risotto e cappuccino, tiramisù come primo piatto, ananas sulla pizza. Gli stranieri in Italia ci regalano immagini per noi devastanti, quasi da codice penale. Che i ristoratori accettano, per dovere di incasso. Ma qualcosa si può e si deve fare dal punto di vista dell'educazione

L’alimentazione ha modellato la nostra identità culturale” lo si legge in copertina su uno dei libri di maggior successo dello storico del cibo, Alberto Grandi: Storia delle nostre paure alimentari. I suoi saggi diventano bestseller in un colpo d’occhio e nonostante questa non sia la sua ultima fatica letteraria, l’abbiamo rispolverata perché negli ultimi mesi siamo incappati in qualcosa di spiacevole. Più volte, in varie parti del paese. In laguna durante la Biennale d’Arte di Venezia, all’ombra della Madonnina in occasione del Salone Internazionale del Mobile, a Verona mentre sbocciava il Vinitaly, il Salone Internazionale del vino. Cosa accomuna questi tre appuntamenti (oltre al fatto di essere stati organizzati in contemporanea!)? L’onda, per nulla anomala, di stranieri che sono accorsi dai quattro angoli del globo per celebrare il bello, vissuto in ogni sua sfumatura e sfaccettatura. Il bello inteso come atto creativo.

Il collante di ogni giornata, appuntamento, rassegna è stato il cibo. Perché il cibo è vita e perché siamo in Italia e il cibo da sempre fa il nostro paese. È un fenomeno sociale, culturale, economico che definisce l’identità di un territorio: la cucina italiana con la sua narrazione ha modificato nel tempo anche la percezione sociale della figura del cuoco, che si fa rappresentante dei nostri tempi. Sia chiaro, non accade solo in Italia tutto questo. Il cibo è sacro per tanti popoli, entra nelle religioni e lì i fedeli gli riconoscono un forte significato. Nel mangiare e nel bere. Anche inteso come privazione. Ma torniamo al nocciolo della questione.

Parlavamo di disavventure, l’ultima in ordine di tempo è accaduta in un elegante ristorante di Venezia. Al tavolo accanto al nostro una famiglia di stranieri, tre figli di età media tra i 6 e i 16 anni. Uno di loro ordina una cotoletta con un contorno di patatine fritte e la mangia bevendo un cappuccino, di quelli cremosi con il latte montato che sembra una nuvola. E già qui avrei dei problemi. L’adolescente prossimo alla carriera universitaria inizia il suo pasto ordinando un tiramisù, seguito da un filetto “ben cotto” alla griglia, affogato nel sapore agrodolce di una salsa ketchup home made. Silenzio. Non accade nulla, “al palato di quel ragazzo”, direte voi. “Sarà anestetizzato”, mi permetto di obiettare! No, non accade nulla purtroppo in quella sala, quando in contemporanea l’ultimo boccone di tiramisù e il primo pezzo del filetto si incontrano. È sotto i miei occhi.

Il tempo si ferma nello sguardo disorientato di un cameriere che vorrebbe dare un senso alla cosa e sembra aspettare da un momento all’altro che salti la luce. Un cortocircuito, dell’acqua, i fili elettrici, tutto salta. È buio per un attimo. Torna la luce: era solo uno scherzo, una gag ben riuscita del ragazzaccio arrivato in Italia da chissà dove. Questo in un mondo parallelo, quello che tiene conto del fatto che no, il cliente non ha sempre ragione, e si, il cibo fa parte del Paese che hai scelto di visitare. È parte del viaggio.

Qui, in Italia, si mangia bene e se fai una cosa che per noi è da matti probabilmente dovremmo avere la forza di dirtelo: “Caro ragazzo che arrivi in Italia, spero ti abbiano accolto nel migliore dei modi a casa mia ma… se prima ordini una porzione di tiramisù e subito dopo un filetto alla griglia con ketchup stai rovinando il mio Paese, le sue tradizioni, la mia cultura. Non farlo, ti prego, non farlo più”.

Siamo fedeli che riconoscono nel mangiare e nel bere azioni cariche di un forte significato e quella del buon cibo italiano non è una leggenda. È tutto vero, perché per noi il cibo è un dono.

Non esalto l’italianità a prescindere, altrimenti il maestro Alberto Grandi mi bacchetta, so anche che “la narrazione è oggi diventata un elemento fondamentale del cibo stesso” (Denominazione di origine inventata, Alberto Grandi, Mondadori) ma siamo abituati a ricercare i gusti, senza accontentarci solo di quelli primari e non siamo degli estremisti, siamo aperti anche al Fusion, a patto che sia inteso come forma di contaminazione, come il “gesto di accogliere avanguardie per edificare nuove tradizioni”, così scrive Andrea Grignaffini, uno che di cibo ne sa, nel suo manuale “Il cuoco universale. La cultura nel piatto”.

Ecco, il nocciolo della questione, il bandolo della matassa… è solo una questione di cultura alla fine. Rispettala per favore. RISPETTA LA MIA CULTURA.

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Nadia Afragola