Giovanni Ceccarelli, genio e regolatezza
La Rubrica - Gente di Mare 2.0
Una volta si diceva: “Con una laurea in ingegneria ti metti tranquillo per sempre”. Tradotto: un ingegnere è certo di trovare uno sbocco professionale appagante, in ogni senso. Dall’esserne consapevoli al portare a termine quel percorso di studi, il passo non era né breve né scontato. Certo, se si aveva la fortuna di avere alle spalle uno studio di famiglia avviato, fondato da un padre in grado di guidarti e affiancarti verso il raggiungimento dell’autonomia professionale, la leva motivazionale certamente si arricchiva di stimoli e prospettive. Per il resto nessuno sconto: predisposizione mentale e psicologica, inclinazione scientifica, determinazione, impegno e tanto studio erano imprescindibili.
Fu così che Giovanni Ceccarelli, classe 1961, terminò il percorso quinquennale in Ingegneria all’Università degli Studi di Bologna per iniziare immediatamente a lavorare insieme al padre, l’ingegner Epaminonda, pioniere in Italia della professione di yacht designer, avendo già nel 1954 fondato a Ravenna il primo studio specializzato nella progettazione di imbarcazioni da diporto. Stiamo quindi parlando della realtà più longeva tra quelle attive ininterrottamente nel settore.
Al timone di Ceccarelli Yacht Design and Engineering, Giovanni ha raccolto il testimone con l’orgoglio e la “responsabilità” che derivano dalla consapevolezza di non voler disperdere una eredità intellettuale e di competenze uniche. Le stesse che anche il figlio Tommaso, con il percorso accademico intrapreso, mostra di aver fatto proprie affiancando il padre nell’attività progettuale di famiglia. Una carriera, quella di Giovanni Ceccarelli, costellata di successi, soddisfazioni e intime emozioni in ambiti complessi e diversificati: dalla progettazione di barche a vela e a motore, one off e di serie, all’impegno in due campagne di Coppa America (con Mascalzone Latino e +39 Challenge) nel ruolo di principal designer, da quello di direttore dell’ingegneria nel progetto di rimozione del relitto della Costa Concordia all’attività nell’ambito dell’ingegneria costiera e offshore con la progettazione di infrastrutture portuali, sino all’insegnamento con docenze universitarie a livello di master presso l’ateneo di Bologna e il Politecnico di Milano. Nel 1980, anno in cui Giovanni doveva scegliere il percorso accademico a sé più congeniale, non si era ancora certi che la nautica da diporto potesse rappresentare uno sbocco professionale così “sicuro” da richiedere una formazione specialistica. «È il motivo per cui scelsi Ingegneria Civile. Pur avendo mio padre che lavorava nel settore, preferii investire in una preparazione importante e a largo respiro, piuttosto che intraprendere immediatamente una scelta di indirizzo, che all’epoca trovava soprattutto in Inghilterra la scuola di riferimento. Tra l’altro, in quel periodo, proprio in Inghilterra mi ero recato più volte per realizzare delle interviste per il Giornale della Vela a “firme” del calibro di Ed Dubois e Rob Humphreys. Furono loro stessi a dirmi: “Se hai la fortuna di avere in casa chi può insegnarti un mestiere, prenditi una laurea classica, che poi ti servirà anche per la nautica da diporto”. Tornai a Ravenna e dalla mia città non mi sono più staccato».
La spiccata predisposizione al racconto – non so se dettata dall’indole aperta dei romagnoli, dall’inclinazione personale o dalla mole di lavori ed esperienze da trasferire – non fa il paio, però, con la tecnica narrativa del flusso di coscienza. Giovanni Ceccarelli, a dispetto della vena ad esporre, è al contrario molto attento ad esporsi: pondera attentamente la rappresentazione dei suoi pensieri, mosso evidentemente dal desiderio di non voler essere frainteso. La logica, l’organizzazione e la metodologia con cui affronta ogni nuovo impegno professionale emergono chiaramente anche nell’accuratezza espositiva e, soprattutto, nel rigore con cui rimarca ogni sua asserzione. Un approccio che probabilmente deriva, oltre che dalla sua forma mentis, anche dalla scrupolosità e meticolosità con cui è abituato ad affrontare un’aula di neolaureati così come un brief con un armatore o con un costruttore. A quest’ultimo proposito, chiedo se per un progettista sia più stimolante avere come committente un singolo appassionato o una realtà cantieristica. «Proprio questa mattina ho tenuto una lezione ad un corso organizzato dalla CNA di Forlì per tecnici specializzati in procinto di entrare nella filiera produttiva. Il livello del pubblico era piuttosto elevato, con molti laureati, la maggior parte dei quali in ingegneria. Mi è stata posta una domanda simile: “Qual è la differenza tra lavorare per un armatore o per un cantiere?”. Il primo desidera che tu realizzi per lui il suo sogno personale, la barca di cui non ha trovato un riscontro nella serialità. Con ciò non significa necessariamente che sia mosso dal desiderio di affermare se stesso, il più delle volte è un armatore che sta cercando qualcosa che non trova sul mercato. Non lo fa ovviamente per spendere di meno, perché di fatto un prototipo viene comunque oggi a costare più di una barca di serie, ma si rivolge a te per avere un prodotto “suo” e, quindi, unico. Il progettista deve cercare di interpretare le sue aspettative e trasferirle in realtà. Subentra un grande rapporto di fiducia in cui l’armatore si affida a te, che devi condurlo per mano in tutto e per tutto. Nel mio caso, la scelta del cantiere “giusto” per la costruzione in questione è avvenuta, nove volte su dieci, in un secondo momento. Si realizza nel frattempo un progetto preliminare molto dettagliato e, una volta individuato il costruttore più adatto alla realizzazione, il tavolo si allarga e il cantiere diventa a quel punto un altro attore importante, parte integrante dell’opera esecutiva. È necessaria, a questo punto, una fiducia reciproca anche tra progettista e cantiere, perché affinché un progetto venga bene è fondamentale che tutte le professionalità coinvolte ci credano e lo amino. Ho lavorato spesso, soprattutto nel mondo delle competizioni, per singoli armatori e in tutti i casi si è trattato di progetti con un alto grado, più che di complessità, di particolarità legate all’unicità della ricerca e dello studio finalizzati ai risultati specifici. Potrei citare, giusto ad esempio, Dimore del Garda, imbarcazione che mi era stata commissionata da Andrea Stefanina con un unico obiettivo: vincere la Centomiglia del Garda. È evidente che con l’avanzare del progetto diventi strategico il pool di professionisti coinvolti – project manager, velaio, cantiere -, ma l’armatore continuerà a guardare te negli occhi come persona di fiducia, responsabile della trasformazione del suo sogno in realtà. Questo vale ovviamente anche per i progetti pensati per vivere il mare fuori dalle competizioni, come i due, molti diversi tra loro, su cui sto lavorando in questo momento».
Quando il committente è, invece, un cantiere?
«Si parte sempre e comunque da un brief, che può essere molto generico o immediatamente più approfondito e dettagliato. Nel caso dei grandi costruttori, il progettista può essere individuato a seguito di concorsi o direttamente su incarico quando i criteri sono quelli basati sulla stima e sulla fiducia riposta nel professionista. Ho lavorato in ambedue le situazioni e, per rispondere alla domanda iniziale, posso dire di aver ottenuto soddisfazioni per molteplici ragioni: quando il committente che ti ha dato fiducia ti ha poi trasferito la sua approvazione, quando il cantiere per cui hai progettato una barca di serie ha poi venduto un bel numero di unità, quando l’armatore per cui hai firmato il suo racer magari non ha vinto la regata, ma è rimasto entusiasta delle performance e delle potenzialità.
Cosa diversa sono le emozioni, che nel mio lavoro possono derivare dall’aver perseverato, dall’aver osato, dall’aver avuto il coraggio e la determinazione di cimentarmi in ambiti al di fuori della mia “comfort zone”. Quest’anno, ad esempio, l’emozione più grande che ho vissuto è stata quella di vincere il campionato del mondo della classe IOM disputatosi a Rogoznica, in Croazia, con il progetto di una barca radiocomandata lunga un metro (nella foto sopra), che si è imposta su ottanta modelli in una competizione che è stata tiratissima sino all’ultimo e con un livello veramente alto di professionisti iscritti. Di questa classe faccio progetti da quindici anni, ma posso assicurare che vincere il titolo del mondo in un settore così difficile e così diverso da quello in cui sei affermato e apprezzato è davvero emozionante. Così come entusiasmante è stato vedere la Federazione Francese Vela premiare e acclamare il suo campione (lo skipper Olivier Cohen, ndr) con lo stesso risalto e la stessa dignità con cui ha celebrato i campioni del mondo match race. Questo per sottolineare che per la FFV anche la classe IOM è Vela e il World Championship 2022 un altro titolo del mondo di cui andare fieri». E, questo lo aggiungo io, per ribadire che con le stesse energie, passioni e metodologie di lavoro, Giovanni Ceccarelli dimostra di sapersi mettere in gioco, con successo ed emozione, tanto con una barca da un metro quanto con uno scafo da ventiquattro. Ambiti molto differenti in cui emergono amori mai sopiti. «Sono sempre stato molto affezionato al mondo della competizione, quello che per tanti anni mi ha affascinato maggiormente. Sono arrivato in Coppa America, nel 2000 con Vicenzo Onorato, con alle spalle dieci titoli mondiali vinti con barche d’altura da me progettate: prototipi che regatavano contro progetti Bruce Farr, Judel/Vrolijk, Reichel/Pugh. I dieci anni come principal designer, prima con Mascalzone Latino e poi con +39 Challenge, sono stati un intermezzo bellissimo, tra i più forti a livello emozionale. In quel periodo, che era anche quello in cui il mondo delle regate era diventato appannaggio delle barche di serie, mi sono dedicato esclusivamente alla Coppa America, che allora come oggi rappresenta la massima espressione velica dal punto di vista della competizione vissuta, agonistica e mediatica».
La lunga esperienza in Coppa ha avuto dei risvolti nella carriera professionale successiva?
«Le due campagne che ho vissuto io erano molto simili, come impostazione, a una Red Bull – non a una Ferrari -, che vince un campionato del mondo di Formula 1. Una scuderia in cui c’è un capo progettista, un team manager, i piloti e tutta una piramide attorno di competenze specifiche nei singoli settori. C’era un patron, il capo del team, e c’era un capo progettista. Verstappen, per restare nel mondo della Formula 1, non progetta l’auto ma trasferisce le sue sensazioni alla guida agli ingegneri che dovranno mettere a punto la sua monoposto. I velisti, invece, hanno sempre pensato di essere il traino dei progettisti. Personalmente ritengo che atleti e ingegneri debbano piuttosto lavorare all’unisono, per ottenere il risultato. In Coppa America, per rispondere alla domanda, fondamentale è la capacità di lavorare in team. Un concetto che prevede una metodologia di approccio che mi è servita, per esempio, in un progetto molto diverso, ma altrettanto complesso: quello relativo al recupero della Costa Condordia. Anche in quel caso – una grande sfida di tecnologia, uomini e cantieristica che l’Italia ha vinto – il coordinamento delle professionalità coinvolte (avevamo anche un partner americano) è stato essenziale per la riuscita della rimozione del relitto. Quei dieci anni in Coppa mi hanno ovviamente dato anche la possibilità di fare una grande sperimentazione sui materiali e sulla appendici, un bagaglio che ancora oggi mi è utile nell’affinamento del metodo di lavoro».
A proposito di progetti in corso, Giovanni Ceccarelli è impegnato parallelamente sia nel mondo della vela, tanto nella produzione di serie quanto nei prototipi, sia in quello del motore. Qualche anticipazione sul fronte one off? «Ho due progetti, entrambi commissionati da armatori italiani, molto interessanti e molto diversi tra loro. Quello che vedete nella foto (la prima nella gallery sopra) è un 78 piedi in costruzione da Maxi Dolphin: una barca ad elevate prestazioni, elegante nel design, con una costruzione di alta tecnologia finalizzata a una crociera veloce». Ci sono poi le collaborazioni con Neo Yachts ed Eleva Yachts. «Per il cantiere di Paolo Semeraro ho firmato il Neo 400, prima barca prodotta, il 350, il 430, con otto delle nove unità realizzate vendute all’estero, e il 515, un progetto di 16 metri la cui produzione partirà a breve. Sono mezzi molto performanti, in carbonio, leggeri e facili da condurre, con grandi prestazioni sia in crociera sia nelle regate veloci. Per Eleva Yachts, progetti che integrano la caratteristica sheerline ad onda con le più evolute linee di carena, ho invece progettato il The FortyTwo, imbarcazione per la crociera veloce votata alla massima stabilità e sicurezza, e il The Fifty, nata per vivere il mare all’insegna del comfort, ma prestazionale e semplice da timonare anche in regata. Sono due barche di serie, ancora oggi inesplorate, con un potenziale enorme nel segmento dei crociera».
Per Ceccarelli Yacht Design and Engineering, importante è stata, ed è tuttora, anche l’attività in ambito power production, cui lo studio si dedica dalla fine degli Anni Ottanta avviando una lunga e solida collaborazione con Carnevali. «Con mio padre, che all’epoca era molto attivo nello sviluppo di ogni aspetto dei singoli progetti, abbiamo lavorato accanto ad Angelo Carnevali per quasi quindici anni. Ci legava un accordo di tacita esclusiva, fondato sulla stima reciproca. È stata una bella palestra che ha forgiato quasi cinquecento imbarcazioni costruite e consegnate sino alla chiusura, in bellezza, del cantiere». Sono quindi seguiti prototipi di barche in legno e, più di recente, progetti dalla spiccata personalità per Senses Yachts e Mylius. «In primavera verrà varato il primo Senses 07, un 70 piedi semi dislocante dalla potente prua rovescia, contraddistinto da una tuga tutta aperta – di fatto è un open – e da una beach area poppiera con un’ampia vetrata che mette in comunicazione, senza confinarli, interni ed esterni. È già in produzione anche il più piccolo Senses 05, che svilupperà la stessa linea progettuale del fratello maggiore in dimensioni più compatte (15 metri). Uno yacht pensato, quindi, per vivere a contatto con il mare grazie a un concept originale per tipologia e stile, caratterizzato da un main deck aperto con ampi spazi vivibili fuori e sotto coperta. In primavera debutterà anche il Mylius MY 62, un 19,5 metri di cui ho sviluppato concept, architettura navale, esterni, ingegneria, collaborando con lo studio Parisotto + Formenton Architetti per la progettazione degli interni. Il mio impegno con Valentina Gandini (amministratore delegato di Mylius, ndr) prevede anche il progetto dell’MC66, un powercat di 20,45 metri che rappresenterà la novità del cantiere dei prossimi due anni». Ceccarelli, che nel frattempo sta lavorando anche su un gommone realizzato high tech tutto in carbonio per un’azienda nuova in campo nautico ma che è leader nelle componenti in ambito aeronautico, anticipa qualcosa anche sugli intendimenti futuri. «C’è un mondo, che è ancora tutto da esplorare, su cui mi sto concentrando. È quello della ricerca progettuale nel settore dei superyacht a vela: non i già visti piccoli racer in grandi formati, ma vere e proprie navi a vela da sviluppare all’insegna di una sostenibilità che non potrà mai essere eguagliata da nessun altro tipo di propulsione. Perché non ci dobbiamo mai dimenticare che ogni nuovo studio progettuale in ambito nautico dovrebbe sempre avere come fine ultimo, oltre che come responsabilità professionale, la realizzazione di mezzi facili da condurre e, soprattutto, sicuri. In altri settori, vedi quello dell’automotive, la ricerca e i nuovi materiali hanno consentito e consentiranno di incidere sul contesto di utilizzo migliorando la fruibilità del mezzo. L’uso degli asfalti drenanti, per esempio, ha migliorato sensibilmente la sicurezza. Un obiettivo che per la nautica è un poco più complesso: le onde e il vento del Mar Egeo continueranno ad essere per sempre gli stessi in cui ha navigato Ulisse».
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