Ho fatto un corso per parlare in pubblico, e ho scritto un libro. Anzi, due
La Rubrica - Stili Umani
Mi capita spesso di parlare in pubblico per lavoro. Magari in qualche convention aziendale, dove perlopiù si parla in inglese, anche se a scuola si è studiato francese, ma si sa, l’inglese manageriale si impara in fretta, al massimo basta improvvisare una supercazzola, e tutti ascoltano lo stesso interessati. Magari chi ascolta il relatore pensa pure: “Che paroloni che usa, è un grande!”
Solo che io la supercazzola non volevo farla. Non parlo nemmeno tanto volentieri in pubblico. Mi imbarazza, esce una timidezza strana, preferisco ascoltare, anzi osservare. Allora decido di iscrivermi ad un corso di public speaking, che in italiano ormai desueto nelle aziende significa parlare in pubblico, e lo faccio one to one, che in italiano è: singolarmente. Cioè, io e la docente. Lei è davvero brava, non utilizza quei metodi tipo: inspira e poi espira, usa parole ipnotiche e impara la pnl. No, lei mi dice che devo essere me stessa. “Ma siamo sicuri?” le chiedo io, e lei temeraria mi risponde di sì. In effetti grazie al suo insegnamento meno canonico, ma più profondo, riesco ad affrontare meglio il pubblico composto da tanti piccoli manager che ascoltano me, piccola manager. Ma niente, nonostante i miglioramenti, cosa faccio? Scrivo un racconto che non c’entra nulla con aziende o parole in inglese e che si intitola “la sindrome dello spugnato giallo”. Lo scrivo dopo una telefonata con un amico, uno scrittore, che grazie a una mia battuta mi chiede di scrivere un breve racconto. Io lo faccio e glielo invio e lui mi sprona ad andare avanti nella scrittura, perché si vede che ho tante cose da dire…Un successone per il mio corso no? Lo dico alla mia docente, e pensavo che mi dicesse: “Ma Elisa dovevi parlare, non scrivere…”. Invece lei non solo non me lo dice ma mi incoraggia ad andare avanti, e io scrivo, e scrivo di tutti questi personaggi che mi vengono in mente. Così nasce il libro “Fatti di umani”. Nello scriverlo rido, qualche volta mi commuovo e piango poi di nuovo mi diverto e siccome non era un gran periodo, tutto questo mi dava gioia. Già, non era per niente un gran periodo: si stava uscendo dalla pandemia, era appena iniziata la guerra in Ucraina, insomma non c’era più nessuno in giro con cui ridere e scherzare, e nemmeno io ero più una con cui ridere e scherzare. Così, la sera, mi mettevo sul divano e facevo vivere tutti i miei personaggi con le loro caratteristiche, le loro fissazioni, e con loro riuscivo a riflettere, a emozionarmi, e stavamo in compagnia. È nato così “il manager che conosce le soft skills”, “il nutrizionista incazzato”, “l’influencer o aspirante tale” e altri personaggi che esistono nella contemporaneità, che ognuno di noi conosce, magari frequenta o, addirittura, è lui stesso. C’è la “single che sta bene così davanti ai parenti stretti”. Un casino con questo racconto, i miei cugini pensavano che parlassi davvero di mia zia, ma no, non è un libro autobiografico. Ho solo osservato il contesto attuale, ne ho estrapolato alcune caratteristiche e le ho trasformate in maschere, utilizzando l’ironia, che qualche volta cela solo una risata amara. Ma i miei personaggi li amo, sono straordinari e ordinari al tempo stesso. Nell’ultima parte del libro si riuniscono tutti per passare una serata insieme, perché tra loro c’è un legame di amicizia, oppure di parentela, oppure una relazione amorosa. Tutti loro formano un gruppo di amici, e fanno una cosa ormai rarissima: passano una serata con l’unica intenzione di stare insieme. Sono persone normali, non ci sono clamori, nessuno scalpore, ma c’è l’amicizia e di questi tempi potrebbe persino essere straordinario. Il sottotitolo è “Racconti in cui non succede niente”, ma in realtà qualcosa succede sempre. Basta saperlo percepire. Ogni personaggio è quello che è, con i suoi pregi e i suoi difetti, ad esempio "l’amante dello spugnato giallo" è privo di buon gusto, ma ama la sua fidanzata che è “la proprietaria della tovaglia cerata con i fiori opachi” e lui, quando le regala il Bimby, lo fa con il massimo trasporto. È pure il caro amico “dell’architetto che conosce Palladio”, cioè colui che pensa di detenere il verbo della bellezza.
Insomma, ero stanca di cose urlate sia sui media che nei bar. Ero stanca di terrorismo psicologico, di polemiche, di clamori per la beneficenza fatta con la Lamborghini.
Ero stanca di eroi da stories. Avevo voglia di conoscere eroi semplici che sono “eroi” semplicemente perché sono veri. Allora li ho inventati, li ho scritti. Qualcuno mi ha chiesto come scelgo i miei personaggi, e io rispondo che sono loro a scegliere me. Perché lo credo davvero. Credo che oltre le piccolissime nuvole, in cielo ci siano dei personaggi che vagano, e che cercano qualcuno che li faccia vivere sulla carta. Una visione un po' pirandelliana, ma più psichedelica magari. Fatto sta che okay, Anna Karenina ha scelto Tolstoij per farsi scrivere, Emma Bovary ha scelto Flaubert, e l’amante dello spugnato giallo ha scelto me, e chi sono io per rifiutare? Ognuno forse ha il personaggio che merita, anche se sono convinta di essere fortunata, perché come ho già detto li amo tutti questi personaggi. Quanto abbiamo riso tutti insieme. E quanta leggerezza. Come diceva Calvino: “leggerezza non è superficialità ma planare sulle cose dall’alto senza macigni sul cuore”.
Comunque, tutte queste cose le ho dette anche alla mia docente del corso di “parlare in pubblico” e lei non ha richiesto un TSO, quindi presumo sia tutto a posto…Scherzi a parte “Fatti di umani” (NFC edizioni) ha portato i miei personaggi sulla terra, e questo mi basta. Anche perché dovevo parlare in pubblico, come dicevo prima, e invece alla fine ho parlato con questo libro, anzi due. Perché i libri sono due. Anzi quasi tre, perché ho creato qualcosa che diventerà una trilogia composta rispettivamente dal libro “Umanistili e una ballerina sulla luna” (NFC edizioni), poi da “Fatti di Umani” e poi ci sarà il terzo che al momento non ha un titolo. Ho parlato, sì, ho parlato in questo modo. Senza nemmeno fare la supercazzola.