Un incontro immaginario tra Spinoza e Vermeer
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Un incontro immaginario tra Spinoza e Vermeer

Il primo, straordinario pensatore caposaldo della civiltà occidentale; l’altro, pittore dal «realismo incantato» che esercita ancora oggi una incredibile suggestione. Per il critico di Panorama hanno consonanze profonde e affascinanti. Da riscoprire.


Mi chiedo la ragione del fascino esercitato su di me da Baruch Spinoza, il filosofo olandese che scriveva in latino. Non è una cosa rara. Spinoza è il filosofo prediletto da molti, e non soltanto pensatori, del nostro tempo: da Franco Battiato a Giulio Giorello, da Remo Bodei a Federica Rigotti, da Carlo Michelstaedter a Luca Doninelli. Me ne parlava con straordinaria considerazione Sossio Giammetta, traduttore di Nietzsche e Schopenhauer. Me ne parlava Nuccio Ordine.

E lo trovi dietro Goethe, Herder, Lessing, e Jacobi nella Dottrina di Spinoza (1785), che diede origine allo Spinozastreit - controversia, litigio, accapigliamento - su Spinoza. Luca Bistolfi, polemizzando oggi con Frederic Lenoir, autore di Il miracolo Spinoza (La nave di Teseo) ha scritto: «E Giametta, già traduttore dell’Etica, riferisce che l’opus maius di Spinoza era per Giorgio Colli “sacro”; egli detestava i moderni, salvo appunto Spinoza e Giordano Bruno. Per lui l’Ethica era un tempio in un deserto, entrando nel quale, se se ne aveva la capacità, si poteva “conoscere il divino”. Prendeva l’Ethica molto come un libro di misticismo (Il bue squartato e altri macelli, Mursia). Sollevandoci parecchio di più, ricordiamo che Hegel proclamò: “philosophieren ist spinozieren” (non occorre tradurre). Nella sua romita Hütte a Todtnauberg, Foresta Nera, Martin Heidegger viveva in povertà bibliografica, ma non si fece mancare alla portata di mano l’Ethica. Eppoi ricordiamoci (e forse questo è un terzo motivo) che se un attentato alla sua vita, una solenne maledizione e la conseguente espulsione (lo herem) della comunità ebraica di Amsterdam ne segnarono il rapporto con i confratelli e che ancor oggi egli è avvolto nella damnatio memoriae, e se i cristiani d’ogni confessione lo sdegnarono e nemmeno ai giorni nostri sanno molto cosa farsene, significa che Spinoza ha davvero qualcosa di molto importante da dire - a noi».

Certo, ha ragione Bistolfi: Spinoza non è un miracolo, e ai miracoli non crede. Ma la intuizione Deus sive Natura è così assoluta che consente di sentire «Dio immanente» e «Dio trascendente», come presenza nella creazione e nelle creature, comunque create, comunque esistenti con una loro numinosità, un albero come un uomo. Comunque sia, Dio è in noi. Per questo, e oggi appare tanto più rispettoso dell’uomo: «La pace non è assenza di guerra: è una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia», che ha la maggioranza degli uomini, ma non i pochi potenti, che credono alla forza e alle armi per vincere. Pensate allo sconcerto di Vladimir Putin davanti a uno Volodymyr Zelensky pacifista, che combattesse, con il sostegno dell’Europa, con le idee, con la ragione, lasciandolo solo ad attaccare.

Anche per questo Spinoza ha una risposta: «Ho assiduamente cercato di imparare a non ridere delle azioni degli uomini, a non piangerne, a non odiarle, ma a comprenderle». Già è sorprendente applicare la geometria all’etica, la scienza alla morale. Mi colpì, da ragazzo, un suo pensiero che non ho ritrovato né nell’Ethica, né nel Tractatus theologico-politicus, in cui difendeva la libertà di pensiero da ogni ingerenza religiosa e statale, e indicava i principi della moderna esegesi biblica: «Bene e male non sono una buona o una cattiva azione, ma bene è ciò che accresce la conoscenza, male è ciò che l’arresta o l’arretra». Misurare l’etica con la conoscenza! Non l’ho più trovato, ma la formula, forse costruita da me, ha molto influenzato il mio pensiero e il mio comportamento. Oggi non vorrò chiosarne l’amatissimo pensiero, ma osservare alcune coincidenze.

Spinoza è assolutamente contemporaneo di Iohannes Vermeer, nati entrambi nel 1632, morti a soli due anni di distanza, nel 1675 e nel 1677, a poco più di quarant’anni. Vissuti a Rijnsburg e L’Aia e a Delft, a venti-trenta chilometri di distanza. Certo, entrambi filosofi (quanto pensiero nelle vedute e negli interni di Vermeer!), ma, di più, con lavori molto simili, potremmo dire: visivi. Legati agli occhi. Vermeer pittore, naturalmente, lenticolare, attento come nessuno al dettaglio. Spinoza, dopo la terribile scomunica della comunità ebraica che, per la durezza, val la pena di rileggere, si applicò a un lavoro artigianale. «Con l’aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, con il consenso di tutta la santa comunità e al cospetto di tutti i nostri Sacri Testi e dei 613 comandamenti che vi sono contenuti, escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo Baruch Spinoza. Pronunciamo questo herem nel modo in cui Giosuè lo pronunciò contro Gerico. Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. Che l’Eterno non lo perdoni mai. Che l’Eterno accenda contro quest’uomo la sua collera e riversi su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge; che il suo nome sia per sempre cancellato da questo mondo e che piaccia a Dio di separarlo da tutte le tribù di Israele affliggendolo con tutte le maledizioni contenute nella Legge. Sappiate che non dovete avere con Spinoza alcun rapporto né scritto né orale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti. Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti».

Spinoza da allora visse modestamente a Voorburg, vicino all’Aia, abitando da pensionante in casa dei coniugi Van der Spijck (lui pittore, lei sarta) e mantenendosi con il lavoro di molatore di lenti, sicura e precisa pratica di lungimiranza e di chiaroveggenza. Spinoza tornitore di lenti, strumenti per meglio vedere da vicino, per potenziare l’occhio, organo fondamentale del pittore. Immagino la sua bottega come un dipinto di Vermeer, di un «raro» interno non sontuoso, non come quello dell’Astronomo e neppure come quello della Lattaia, ma come l’angusto spazio della Merlettaia, con gli occhi bassi sul cucito, certo bisognosa di lenti, contro un povero muro grigio. Cosi vedo l’ambiente di lavoro di Spinoza a Voorburg. Così immagino un elegante Vermeer da lui in visita. Eleganti entrambi, un tratto che li accomunava.

Scrive Spinoza: «Non è un portamento disordinato e sciatto che fa di noi dei saggi; anzi affettare indifferenza per l’aspetto personale è testimonianza di uno spirito povero, in cui la vera saggezza non potrebbe trovare adatta dimora e la scienza incontrerebbe soltanto disordine e scompiglio». Non è quello che ci dice la silenziosa e distante, senza sentimenti ed emozioni dichiarate, che non siano nelle cose (Deus sive natura), Allegoria della pittura (1668)? Mi chiedo, ancora: si saranno mai incontrati? Si saranno visti, parlati? Avrà Vermeer usato una lente di Spinoza per dipingere con maggiore precisione, «ordine geometrico demonstrata»? Non potremo mai saperlo, e forse non sarà mai accaduto. Eppure i dipinti di Vermeer parlano di Spinoza. Sono teoremi di Dio. E anche Vermeer ebbe problemi di religione. Nonostante fosse di famiglia protestante, sposò una giovane cattolica, Catherina Bolnes, nell’aprile del 1653.Qualche tempo dopo le nozze, la coppia si trasferì dalla madre di Catherina, Maria Thins, una vedova benestante, che viveva nel quartiere cattolico della città: qui Vermeer avrebbe vissuto con la famiglia e i numerosi figli per tutta la vita.

Poco inclini a muoversi, anche per pochi chilometri, tutti e due. Da immaginare allora che sia stato piuttosto Spinoza a visitare Vermeer? Visse per tutta la vita in camere d’affitto e senza famiglia (gli si attribuisce un solo legame sentimentale con la figlia del suo insegnante di latino), coltivando il guardaroba. Per diverse ragioni non dovettero incontrarsi. Ma se guardiamo un dipinto come il Geografo, firmato e datato 1669, in quello sguardo alle carte ci sembra di veder lo sguardo di Spinoza nella solitudine della sua stanza, e pensare al suo Tractatus scritto in quello stesso tempo come una rigorosa applicazione della ragione alla comprensione del mondo. Di altri incontri abbiamo notizia. Un amico intercedette presso di lui perché il giovane e intraprendente Leibniz si era dichiarato interessato a leggere i suoi testi, Spinoza rispose: «Reputo tuttavia imprudente di confidargli così presto i miei scritti», nell’Epistola LXXII, novembre 1675. In quell’anno sarebbe morto. Leibniz sembrava curioso anche dei suoi studi di ottica. Quando Leibniz lo incontra, Spinoza era un uomo di altezza media, «il corpo ben formato, il viso bellissimo e dalla fisionomia simpatica», come racconta il biografo Johannes Colerus. Nessuno ci ha raccontato l’incontro con Vermeer.

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Vittorio Sgarbi