Jago, scultore nonostante l'arte di oggi
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Jago, scultore nonostante l'arte di oggi

Una personalità che fonda la sua tecnica sulla tradizione, ma realizza opere illuminanti, assolutamente contemporanee. Non solo: riesce a salvarsi dalle logiche di mercato) che spesso annullano anche le espressioni più originali.

Comunque lo si voglia giudicare, sarebbe difficile non considerare Jago un fenomeno. Uno di quelli che non si possono ignorare come se non esistessero, secondo costume abituale di certa critica d’arte, la più elitaria e autoreferenziale nel guardare solo al proprio hortus conclusus, salvo capire poco del mondo con cui abbiamo a che fare, probabilmente non solo quello dell’arte. Jago esiste, enormemente di più di quelli che ancora si sforzano di ignorarlo. Esiste perché esiste la sua opera, il suo modo di comunicare che non si limita, nel rispetto di una tradizione secolare occidentale e più specificatamente italiana che da un punto di vista tecnico vorrebbe continuare ad evidentiam, alla sola cosa scolpita (non fa solo sculture, ma sono indubbiamente le sculture il centro della sua opera), ma lo estende allo scolpire come atto di primaria, vitalistica dimensione per metterlo in relazione con tutto ciò che può essere correlato produttivamente ad esso, dallo spettacolo all’economia, in questo senso con spirito molto più in linea con i tempi globalizzanti che ci vedono oggi coinvolti.

Jago esiste, soprattutto, perché questo suo modo aggiornato, globale di fare arte mettendo assieme antico e moderno riflette un sentire non solo espressivo, ma più generale rispetto al mondo attuale che viene condiviso da un pubblico internazionale di estimatori dalla portata inconsueta, da popstar in confronto a quello di cui gode la stragrande maggioranza degli artisti contemporanei, e, cosa ancora più rara, con un numero notevolissimo di giovani e di non competenti al suo interno.
È per me una ragione d’orgoglio averlo premiato poco più che ventenne, e poi presentato alla Biennale di Venezia nel 2011 su segnalazione della veggente Maria Teresa Benedetti.
Se tutto ciò è stato possibile è perché Jago non ha inteso subire gli eventi che lo hanno interessato, è voluto essere lui un fenomeno che si doveva conoscere e di cui bisognava parlare, anche da parte di chi non è aduso a sapere e discutere di arte. Si è fatto forte, Jago, della scaltrezza e della determinazione di chi ha capito precocemente che nell’epoca della civiltà non sempre civile del web e dei social sarebbe insufficiente essere lo scultore più capace della Terra per guadagnarsi automaticamente il centro del palcoscenico, ci vuole anche altro, e questo altro bisogna inventarselo con la stessa concentrazione, la stessa meticolosità, la stessa verve creativa che si riserverebbe a un’opera scultorea di grande impegno.

Scaltrezza e determinazione che potrebbero essere colte in trasparenza fin dagli aspetti preliminari del porsi di Jago a noi; nella temerarietà, per esempio, con cui Jacopo Cardillo da Frosinone ha ripudiato in arte il nome anagrafico per adottare quello archetipico del più perverso fra i personaggi shakespeariani, la personificazione del male fine a sé stesso, così come lo vedeva, fra i tanti, anche Benedetto Croce, o anche l’«onesto», per dirla come l’ingenuo Otello, che esemplifica alla perfezione la spregiudicatezza cara a Machiavelli di cui dovrebbero munirsi gli uomini politici. Se è vero che nomen omen quando sono gli altri ad attribuircelo, tanto più lo sarà quando il nome lo si sceglie di propria iniziativa.
Escludendo che abbia voluto chiamarsi in tal modo perché vuole apparirci provocatoriamente spregevole (mi pare evidente che Jago appartenga alla schiera di coloro che, con disposizione peraltro sanissima, preferiscono piacere piuttosto che repellere), dovremo pensare che ci sia qualcosa di machiavellico in lui? Potrebbe anche essere, non certo nel senso che ha dato corpo alla stereotipata caratterizzazione shakespeariana, naturalmente, ma in quello che tende a concepire il proprio muoversi nello scacchiere del mondo non come evenienza dettata da fattori più o meno casuali o da volontà altrui più o meno determinanti, ma come effetto di un’avveduta strategia personale.

Non è cinico Jago, né un arido calcolatore, ma hai ugualmente l’impressione che riesca a mantenere sempre il polso delle situazioni in cui si trova nell’affrontarle non manca mai di sapere già in partenza cosa vuole fare e dove vuole andare a parare, mai azzardando salti al buio o voli senza rete anche quando sembrerebbe esattamente il contrario.
È un pregio fra i più lodevoli, sia ben chiaro, non certo un difetto per cui additarlo. Misura un’intelligenza, una ragion pratica di cui troppo spesso gli artisti ritengono di potere fare a meno, privilegiando altre qualità che non sempre a buon diritto andrebbero valutate più importanti.
Jago si è formato trovando in sé stesso quell’accademia che l’istituzione non riusciva a fornirgli fino in fondo, perseguendo come motivo pressante della sua ispirazione l’ineludibilità del confronto con l’antico, col mestiere dello scolpire così come codificato dal Rinascimento - mai dimenticare che la scultura è stata la sua arte primigenia che ha finito per nutrire tutte le altre - fino al secolo scorso, con l’idea della centralità del genere umano e della nobiltà della sua forma che un tale magistero intellettualmente sottende. Ben presto, però, Jago si convince che non basta ammirare per imparare. Bisogna farlo, a un certo punto, per sfidare, come in fondo facevano i grandi maestri che non volevano emulare gli antichi, volevano superarli, facendo scaturire da questo intento la modernità nel suo valore più autentico.

Prendiamo, per esempio, un’opera come il Figlio velato. Dal punto di vista scultoreo, si tratta della ennesima competizione stabilita - è così anche con la sui generis michelangiolesca Pietà a Santa Maria in Montesanto e con la prossima, berniniana, ma anche giambolognesca Aiace e Cassandra, per dire di altri casi non meno evidenti - con un famoso capolavoro del passato, il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino nella Cappella Sansevero a Napoli, che sviluppava fino alle estreme conseguenze un espediente tecnico-espressivo inventato dal veneto Antonio Corradini, la resa delle forme umane intraviste attraverso un velo aderente, quasi da Simbolismo preconizzato. Virtuosismo puro, quello di Sanmartino, così sovrumano da fare immaginare che il velo non fosse stato scolpito nel marmo, altrimenti si sarebbe spezzato per forza, ma ottenuto attraverso un bagno chimico pietrificante escogitato dal principe alchimista Raimondo di Sangro, committente dello scultore. Non avrei dubbi sul fatto che proprio questo sia stato il motivo di maggiore attrazione avvertito da Jago: quel Cristo non incarna sé stesso come Dio fattosi uomo, ma in quanto opera d’arte.

E lì il prodigio, lo spettacolo della metamorfosi resa permanente - è il tema centrale affrontato da Sanmartino, il corpo che si fa spirito allo stesso modo di come la materia si fa arte - ancora in grado di lasciare a bocca aperta a due secoli e mezzo dal suo allestimento. Se si è veri scultori, bisogna sapere fare altrettanto.

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Vittorio Sgarbi