La Juve di Capello? Bella senz'anima
Per chi l'ha vista (e amata) quella del tecnico friulano è stata la Juve più forte. Ma anche quella più algida
Era forte la Juventus di Fabio Capello. La più forte che si ricordi da molti, molti anni a questa parte; lo era nelle fondamenta e nella forgia. Aveva la rosa più clamorosa che molti juventini, e non solo, abbiano mai potuto ammirare. Ma ve lo ricordate l’undici titolare? Buffon, Zebina, Cannavaro, Thuram, Zambrotta, Camoranesi, Emerson, Nedved, Trezeguet, Ibrahimovic. E poi Chiellini, Mutu, Zalayeta e il supremo Alessandro Del Piero. E in panchina Don Fabio Capello, che solo a dirlo faceva già paura. Perchè Capello è sempre stato sinonimo di vittoria, ancor più e prima dell’epica Lippiana e o di quella Mourinhana.
Capello, quando arrivò alla Juve, era il Mr Wolf della vittoria. Buongiorno sono Fabio Capello e risolvo problemi, sono Fabio Capello e vinco. Sempre. Con uno così in panchina come si poteva solo immaginare la sconfitta? I campionati li vincevi ancor prima di iniziarli, e li vincevi già sotto l’ombrellone, perché - a differenza dei suoi predecessori - Capello non ha accettato promesse, scomesse o talenti sulla rampa di lancio. Capello voleva i giocatori già fatti e finiti, pronti per la vittoria. E i giovani? Sì certo, ci sono stati anche quelli, ma solo i migliori, tutti i migliori e solo per lui. Albertini, Panucci, Cassano, De Rossi, Raul, e chissà quanti altri. Ma solo i migliori. In quella Juve ne aveva un paio di giovani da svezzare con il pane della vittoria: Giorgio Chiellini e Zlatan Ibrahinovic. Tutti gl altri erano già giocatori fatti e finiti. Capito il tipo? Ma l’anima quella no. Al limite il rispetto. Mi rispettano tutti perché io ho carattere, diceva MrWolf. Capello non aveva neppure bisogno di dirlo che già lo rispettavano.
Era bella la Juventus di Fabio Capello. Bella come la vittoria. Bella come la Gioconda. Bella come la perfezione e il 4-4-2. In porta aveva il miglior portiere del Mondo. Un Gigi Buffon di 28 anni con un solo problema: aver vinto ancora poco in proporzione al suo talento smisurato. Ma, ça va sans dire, questo genere di problemi hanno facile soluzione se si ha a disposizione il Soluttore. In quella Juventus la porta di Buffon diventò un varco invalicabile per molti grazie a una difesa che per almeno tre quarti ha saputo essere leggendaria: 23 gol subiti nel 2004/05 e solo 12 nel 2005/06.
Zebina fu un fedelissimo di Capello, a Roma lo ricordano molto più per le sue zebinate difensive che per la chiusure epocali, ma in realtà è sempre stato un difensore possente fisicamente e affidabile dal punto di vista tattico. Un perfetto interprete della retorica Capelliana.
I due centrali erano di livello astrale. Cannavaro, che da lì a poco avrebbe sollevato più oro di Paperon de’ Paperoni, tra Coppa del Mondo e Balon d’Or, rappresentava il prototipo del campione assoluto. Un chirurgo della chiusura difensiva con l’esplosività del cyborg. Un talento tutto pane e calcio che si integrava alla perfezione con l’eleganza un po’ neodem e un po’ terzomondista di Lilian Thuram. Riportato al centro della difesa dopo i tre anni, mal digeriti, da terzino dell’era Lippi, Thuram era sempre un passo avanti. I suoi interventi sembravano felpati per tempismo ed eleganza e quasi non lo notavi a fianco del suo furioso compagno di reparto. Poi, quando entravano in azione insieme, era come un arrembaggio, la difesa che diventa offesa riuscendo ad esaltare pubblico e tifosi come due mezzepunte sudamericane.
A sinistra Gianluca Zambrotta, forse l’esterno italiano più forte degli ultimi 20 anni. Un professionista della propulsione: giocava indifferentemente a sinistra e a destra, davanti o dietro. Alla Juventus, al Barcellona, al Milan, in Nazionale sempre a 100 all’ora. Un Jumbo Jet, con poca anima forse, ma con tanto cuore e polmoni, almeno a giudicare dai chilometri e chilometri che macinava ogni maledetta domenica. Zambrotta sapeva essere Angelo Di Livio all’ennesima potenza. Un soldatino al quadrato coi numeri da star e i piedi ben piantati per terra. Come quella sera in cui a cena, festeggiando il 27esimo scudetto della Juventus, qualche settimana prima della maledettissima finale di Manchester, gli dissi: “Jumbo, sei da Pallone d’Oro, altro che Figo...” e lui, con un sorriso, “Mi sembra tu stia esagerando”.
Il centrocampo era di lotta e di governo. Il soldato Emerson in prima linea, anch’esso gendarme Capelliano di lungo corso, un brasiliano con il rigore di un tedesco. Un mediano coi piedi da mezz’ala. Un mastino senza museruola con i piedi da piccolo regista. Il "Puma", lo chiamavano, felino quando occorreva, ringhiante quando meno te l’aspettavi. Arrivò alla Juve fortissimamente voluto da Capello e dopo una trattativa estenuante di Moggi Luciano che di quella Juve era molto più dell’anima.
Lì in mezzo lo affiancava Patrick Vieira, colpo estivo milionario della triade bianconera che faceva gola a mezz’Europa, solo perché a quei tempi il resto del mondo uno così non poteva neppure sognare di permetterselo. Un gigante. A volte sembrava passeggiasse sui resti inermi degli avversari, come Gulliver tra i Lillipuziani. Si faceva largo a falcate e rasoiate e faceva gol (5 quell’anno in 31 presenze). Insieme ad Emerson erano insuperabili, i Thuram e Cannavaro della mezzeria bianconera.
Sugli esterni il talento era sempre e comunque al servizio della tattica. Camoranesi, una versione moderna degli Angeli dalla Faccia Sporca. Aveva acceso i cuori di molti tifosi juventini con dribbling e funambole già negli anni di Lippi, ma con Capello seppe diventare se possibile ancor più cattivo e concreto. Correva, copriva, saltava l’uomo e faceva gol. E quanti cross per Trezeguet e Ibra.
A sinistra giocava un Pallone d’Oro. Uno che dietro le due punte era diventato il più forte di tutti, e che accettò senza se e senza ma di rimettersi ordinatamente in riga sulla fascia sinistra. Avanti e indietro. Qualche scorribanda per vie centrali, ma senza rinunciare a far gol - 17 reti in 2 stagioni - e l’esempio lampante di come anche l’anima si possa mettere al servizio della squadra e dell’estetica nichilista. Pavel Nedved era già allora quello che è oggi. Un pezzo dell’anima juventina impiantata sul terreno di gioco e lui come e più degli altri divenne manifesto del rigore Capelliano. Ingranaggio tra gli ingranaggi di quella macchina che andava in guerra senza mescolarsi nella calca della trincea. Sapendo già prima di partire che la lotta, per quanto dura fosse, avrebbe portato comunque alla vittoria.
Ma è in attacco che Capello insinuò l’apoteosi del suo essere. Strappando il cuore e l’anima della Juve prima ancora di costruirne gli schemi offensivi. La panchina per Del Piero suonò come un atto di lesa maestà, ma fu in realtà il solo modo per instaurare in una squadra abituata a vincere e sognare il regime dell’ordine precostituito. Un plotone d’esecuzione per chiunque capitasse a tiro. E i cecchini, si sa, sono utili quando c’è da fare il tiro al bersaglio. Lui, infatti, scelse i cecchini migliori: Trezeguet e un giovane con le qualità, invero ancor grezze, del superbomber: Zlatan Ibrahimovic.
Trezeguet era l’uomo giusto al posto giusto: 38 gol in due campionati titolarissimo oltre ogni ostacolo. Sponde, assist e gol, gol e ancora gol. Non troppi, ma quelli che bastavano a congelare le speranze degli avversari nei due campionati che la Juventus di Capello seppe anestetizzare prima ancora che giocare. Trezegol fu il primo acquisto del goriziano: nell’estate 2004 era già pronto per partire, destinazione Barcellona, la Juventus era già d’accordo. Ma Capello no. A lui serviva quel certosino del gol. Per stazza, rapidità e per la scientificità sotto porta era il prototipo del suo centravanti tipo. Lo chiamò e in cinque minuti lo convinse a restare. Mr Wolf non ce ne avrebbe messi meno.
E poi Ibra, appunto. Zlatan Ibrahinovic. Il mutante ninja fatto calciatore. Un colosso svedese dall’ambizione smodata e i colpi letali dell’alieno. Le movenze da funambolo su un fisico da gigante di thai box. Quando arrivò alla Juventus Zlatan Ibrahimovic era ancora da raffinare. Intendiamoci, Capello lo considerava già un fantagiocatore, ma lavorò per renderlo più efficace sotto porta. Perchè l’efficacia conta infnitiamente più dell’estetica. Lo costrinse quindi ad allenarsi per ore, per abituarsi a tirare e a segnare di più. I due anni in bianconero furono quelli in cui segnò meno, ma furono probabilmente quelli in cui lo svedese capì quante e quali frecce aveva nel suo arco. Vinse lo scudetto, come sempre, pur sapendo (probabilmente fin dal primo giorno) che per lui la Juventus era solo di passaggio. Sarebbe diventato, da lì a poco, il Fabio Capello degli attaccanti, l’uomo dal mantra immutabile: Io sono Zlatan e arrivo primo. E primo in effetti c’è arrivato sempre, ad ogni campionato in cui partecipato, in ogni squadra in cui è andato. No, la Champions no. Per quella ci vuole l’anima. E l’anima alberga altrove. Ma in campionato, invece, è sempre stato incontenibile, un serial killer capace di collezionare scudetti e gol. Li ha vinti tutti, per dieci anni. Olanda, Italia, Spagna, Francia. Ajax, Juventus, Inter, Barcellona, Milan, PSG. Tutti, tutti tranne uno. Quello contro la Juve di Antonio Conte, una squadra che sulla carta sembrava più debole del suo Milan. Ma con un anima grande così.
Era bella la Juventus di Fabio Capello, bella di una bellezza esteriore. L’estetica della sincronia e quindi della vittoria troppo spesso contrapposta all’estetica del bello. È stato così al Milan dove “il bello” era (ed è) Arrigo Sacchi. Lo è stato alla Juventus dove la grande bellezza si chiamava Marcello Lippi. Lo è perché l’anima non è in vendita, ma neppure la vittoria. E lui, Fabio Capello, è come quei ragazzacci grandi e grossi che ti spaventavano alle scuole medie: meglio averli dalla tua parte che contro. No, non ci divertivamo a veder giocare la Juventus di Fabio Capello, ci divertivamo a veder vincere la Juventus di Fabio Capello. La perfezione ha meno fascino dell’amore. Ma a volte risulta infinitamente più utile.
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