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Clan Arnault: il lusso di una discendenza

Clan Arnault: il lusso di una discendenza

È tra gli uomini più ricchi del mondo, a capo del maggiore gruppo di prodotti di alta gamma mai creato, Lvmh. Ma anche per lo «stupor mundi» Bernard Arnault, arrivato a 72 anni, si affaccia il tema successione. Che ha coltivato seguendo, passo dopo passo, la vita dei cinque figli. Anche se il rischio «Trono di spade», dice Forbes, rimane.


Ogni buon capitano d’industria pensa a una degna successione, verso la fine della sua attività. Bernard Arnault, no: lui ci pensa da decenni. A capo del gruppo Lvmh, impero costituito da un’ottantina di aziende del lusso globale (Louis Vuitton, Christian Dior, Tiffany, Belmond, Moët et Chandon, Château d’Yquem, solo per citarne alcune), con più di 150.000 dipendenti e ricavi record per 28,7 miliardi di euro nel primo semestre del 2021, il tycoon francese è l’uomo più ricco del mondo insieme a Jeff Bezos ed Elon Musk, grazie a un patrimonio di 160 miliardi di euro.

Ma non è per questo che è tanto lungimirante, bensì per un fortissimo senso di famiglia. Quella da cui arriva e quella costruita: cinque figli, che ha cresciuto per raccogliere un giorno il suo testimone. Un giorno non troppo lontano, a dire il vero. Arnault ha 72 anni e, per spinoso che sia il tema, si parla di quando andrà in pensione. Chi arriverà, dopo? La risposta è apparentemente semplice: c’è il «clan». Delphine e Antoine, avuti dal primo matrimonio con madame Anne Dewavrin, e Alexandre, Frédéric e Jean, dall’amore trentennale con la pianista canadese Hélène Mercier.

I suoi figli sono stati educati fin dalla tenera età al bene comune, cioè il futuro dell’azienda. A ciascuno per decenni è stato fornito ogni strumento per coltivare le necessarie capacità imprenditoriali. Le migliori scuole, ogni attenzione possibile, affiancamenti con i top manager del gruppo, ma anche ruoli di enorme responsabilità dove dimostrarsi all’altezza. Costantemente sotto osservazione. In un documentario del 2013 il padre disse: «Almeno uno di loro si mostrerà capace di prendere il comando». Più di recente è stato meno netto: «L’importante per il gruppo è trovare il migliore, e si vedrà se sarà dentro o fuori dalla famiglia».

Dunque a oggi non è chiaro chi sia il prescelto, l’erede morale, il delfino necessario a non mandare in frantumi il lavoro di una vita.
Intanto i figli «studiano». Oggi, tranne il più piccolo, fanno tutti parte della enorme holding. Delphine, 47 anni, è vice presidente esecutivo di Louis Vuitton e non perde occasione per smorzare le domande («Nostro padre è molto giovane, lavorerà per altri trent’anni»). Antoine, 44 anni, è direttore generale di Berluti e presidente di Loro Piana. Alexandre, che ha 29 anni ed è vice presidente di Tiffany, ha anche guidato l’acquisizione e la trasformazione di Rimowa. Frédéric, 26, è amministratore delegato di TAG Heuer. Infine c’è Jean, che di anni ne ha 21 e ha appena finito di studiare: anche per lui si prospetta una qualche casella iniziale nei vasti organigrammi.

A scommettere su uno di loro non si sbaglierebbe, tale è la priorità data ai legami più stretti che pervade il magnate fin da quando, bambino, respirava aria aziendale nella società di lavori pubblici fondata dal nonno materno, cui era molto legato. Siamo negli anni Cinquanta, il contesto è quello di una rigorosa quanto operosa e amorevole famiglia della borghesia di Roubaix, Fiandre francesi. Studente modello, Bernard si diploma al prestigioso Politecnico di Parigi ma anziché perseguire una brillante carriera da ingegnere, torna dai suoi nella sperduta provincia del Nord e aiuta il padre a far crescere gli affari.

Lo convincerà a cedere tutto per investire in una società che vende appartamenti per vacanze. Boom. È solo il primo di innumerevoli successi imprenditoriali, ma il senso sembra essere tutto qui: business e legami di sangue. Che tramanda alle nuove generazioni. C’è un piccolo aneddoto che Alexandre ha condiviso su Instagram. Ha pubblicato la foto della prima cartolina ricevuta. Era appena nato e il fratellastro Antoine, allora quattordicenne, gli scriveva così il suo benvenuto al mondo: «Caro Alexandre, spero che la tua nascita sia andata bene e che tu stia bene. Ti consiglio di cominciare a lavorare da subito, altrimenti…». Divertente. Ma anche rivelatore dell’esigenza di un padre che, per l’educazione dei figli, pare impieghi lo stesso rigore e lo stesso garbato, inflessibile perfezionismo che mette in tutto il resto.

Eccellente pianista, cavallerizzo, tennista, appassionato di arte, la sua routine – si narra – inizia alle 6.30 nella magione settecentesca lungo la Rive gauche della Senna. Ascolta musica classica, guarda news e andamenti delle Borse, poi scrive messaggi a membri della famiglia (che sente costantemente durante ogni giorno) e alle figure chiave dell’azienda. «Ogni mattina rifletto su come un brand possa rimanere desiderabile dopo 10 anni, questa è la chiave del nostro successo».

Investimenti nel tempo, come con i figli. In passato ha vegliato personalmente sul loro rendimento scolastico chiedendo ai suoi assistenti di non fissare riunioni oltre le 19 perché doveva tornare a casa a controllare i compiti dei ragazzi, già sotto pressione ai collegi dei gesuiti e, per il diploma, rinchiusi nel castello di famiglia a Rambouillet. Senza contare il resto. Corsi di tennis con i migliori allenatori, lezioni di piano praticamente obbligatorie, e per gli svaghi una paghetta di cui rendicontare le spese.

Si cresce per la famiglia e per l’azienda, come non fossero due cose distinte, e per Arnault non lo sono. Spesso al sabato invita tutti a pranzo. È lui, ha raccontato un recente approfondimento del quotidiano francese Le Monde, che stabilisce l’ordine del giorno e il menu. Un pasto forzatamente dietetico che non deve durare più di un’ora e mezza. Chiaramente si ragiona di equilibri aziendali e strategie. Si parla magari della nomina di un creatore, dell’apertura di una boutique, forse dell’acquisizione dell’ennesima azienda italiana, visto che il «lupo in cachemire», come è stato ribattezzato Bernard Arnaud dopo un vecchio affare particolarmente spregiudicato, ne va ghiotto (sono già sue Fendi, Etro, Loro Piana, Bulgari, Berluti, Acqua di Parma, Cova e tante altre).

L’attento padre e capo, sottoporrebbe ogni analisi al giudizio di ciascun figlio, per poi prendere la decisione finale. E nel frattempo li studia e, c’è da scommetterci, immagina scenari futuri, quando un giorno l’Accademia familiare Arnault sarà finita e si dovrà trovare il bandolo della matassa. Secondo osservatori citati dai giornali d’Oltralpe, i due figli più grandi, Delphine e Antoine, sembrerebbero un po’ fuori dai giochi, poco bramosi, ma vai a sapere. Jean è troppo giovane, e si vedrà. Dunque al momento i due più papabili sarebbero Alexandre (che pare il più «vivace» a giudicare dall’entusiasmo con cui si accosta a nuove aziende) e Frédéric. Che poi sono i soli ad aver studiato al duro Polytechnique, tanto amato dal padre.

Secondo fonti citate dal magazine americano Forbes, nel momento in cui il re deporrà la corona, «ci sarà l’effetto Trono di spade». Poco verosimile: in nome della famiglia e dell’azienda, lui avrà già previsto tutto e cercherà di non infrangere l’armonia e la compattezza visibili oggi. I pranzi insieme, le vacanze insieme, le riunioni mensili con solo loro sei intorno a un tavolo, al nono piano del quartier generale di Lvmh, al 22 dell’avenue de Montaigne. Che poi, curiosità toponomastica, Michel de Montaigne fu il filosofo che scrisse la celebre frase: «Governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno». E Bernard Arnault, visto il piglio strategico che impiega in entrambe le questioni, deve averlo chiaro da sempre.

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