Ecco le motivazioni della sentenza Uefa che ha escluso il Milan dall'Europa League
Parametri FFP violati per 120 milioni, scarsa credibilità in Li e tre business plan in meno di un anno: ecco come i rossoneri sono affondati
Trentatré pagine firmate dal portoghese Cunha Rodrigues, il presidente della CFCB Uefa, l'organo di controllo finanziario sui club. Il destino del Milan con l'esclusione dalla prossima Europa League si è consumato in un percorso lungo 20 mesi con errori, business plan presentati e poi ritirati, impegni sul rifinanziamento non mantenuti e una situazione a rischio per la continuità aziendale certificata dal bilancio presentato dallo stesso Milan.
Il viaggio nelle motivazioni della sentenza Uefa che lo scorso 27 giugno 2018 ha sancito l'esclusione dalla prossima Europa League per la violazione delle norme sul Fair Play Finanziario è un viaggio nei dubbi (crescenti) e nelle certezze (poche) della gestione cinese di Yonghong Li. Cifre, tabelle, previsioni: tutto messo nero su bianco nel carteggio tra il Milan e l'Uefa e ricostruito passo passo dalla Camera Giudicante fino al verdetto finale. Impietoso.
Una sentenza in cui, scrive la Uefa, non pesa solo lo sforamento rispetto ai parametri del FFP (120 milioni di euro in 30 mesi dal giugno 2014 al dicembre 2017). No. Contano molto di più i dubbi sulla credibilità del piano economico presentato e riscritto almeno due volte e i rischi per la continuità aziendale già presenti nel bilancio 2016-2017 e ribaditi con forza nel marzo 2018.
Dalla Uefa? No. Da Ernest Young nel report consegnato dallo stesso Milan a corredo del bilancio chiuso al 31 dicembre 2017 dove i revisori citano la situazione di "stress" finanziario dovuto a indebitamento e performance negative e concludono che "vi è un'incertezza che potrebbe sollevare dubbi significativi sulla capacità del Gruppo Milan di continuare a operare". Sei mesi prima (bilancio 30 giugno 2017) avevano scritto che il raggiungimento dell'equilibrio a lungo termine dipendeva dal raggiungimento degli obiettivi del business plan 2017-2022, dei target sul mercato asiatico, dalla rinegoziazione del debito e dalle ricapitalizzazioni della proprietà.
Il dispositivo che condanna il Milan all'esclusione dall'Europa League - 10 luglio 2018
I dubbi su Yonghong Li e i suoi soldi
I dubbi su Yonghong Li e sulla sua forza economica sono chiari sin da subito all'Uefa che già nel novembre 2017 (con ancora l'ipotesi del voluntary agreement in campo) richiede al Milan informazioni dettagliate sul piano di rifinanziamento del debito e garanzie sulle iniezioni di capitale da parte della proprietà.
Il club, guidato dall'amministratore delegato Marco Fassone, aveva già presentato un secondo business plan dopo aver congelato e ritirato il primo nell'estate ottenendo una seconda chance dall'Uefa. Le precisazioni di Ernst Young e le stime sui ricavi commerciali dalla Cina riviste al ribasso (da 277 milioni previsti in quattro anni nello scenario di base a 128 scritti nella revisione) sono già sul tavolo e i giudici di Nyon che non si accontentano dell'esclusiva data dal Milan a HPS Investment Partners per cercare nuovi fondi e vorrebbero che Li depositasse 165 milioni di euro su un conto di garanzia a copertura degli aumenti di capitale indicati dal piano presentato.
Non accade. Il voluntary agreement viene negato (15 dicembre 2017) e nei passi successivi per cercare almeno il settlement agreement il Milan non riesce mai a dare risposte certe sul rifinanziamento del debito della proprietà che finisce in mano a Merryl Linch (marzo 2018) al posto di HPS con impegno a concluderlo che slitta di mese in mese fino al tardo giugno, inizio luglio 2018. Quando poi Li non riesce a restituire i soldi dell'ultimo aumento di capitale anticipato da Elliott.
Addirittura il management mette nero su bianco che non è esclusa la possibilità che parte del debito di Li venga passato al Milan. Il club, a sua volta, ha deciso di creare una Media Company dove far confluire gli assets fruttuosi (diritti tv, sponsorizzazioni, brand etc...) per emettere obbligazioni da 300 milioni (poi diventano 270) per restituire i suoi 128 a Elliott e finanziarsi per il futuro in una corsa al debito che viene fotografata dai revisori indipendenti di Pricewaterhouse Coopers con la cifra totale di 505 milioni di euro.
Da lì a qualche giorno (aprile 2018) un nuovo business plan con l'azzeramento dei ricavi cinesi per il primo anno e la sparizione dell'indicazione degli aumenti di capitale garantiti da Yonghong Li per il 2019 (47 milioni di euro) e il per il 2020 (56 milioni).
Il crollo dei ricavi cinesi
A minare la credibilità dei piani presentati dal Milan - scrive la Uefa a pagina 27 delle motivazioni - è la notevole diminuzione della stima dei ricavi provenienti dagli affari commerciali in Cina tra il primo e il terzo business plan che ha avuto "grande impatto sulla credibilità delle informazioni presentate dal club e sulla fiducia che il club possa raggiungere comunque gli obiettivi prefissati".
Le tabelle allegate sono chiare. Si passa da una stima di 277,6 milioni tra il 2017-2018 e il 2020-2021 nello scenario base ai soli 42 milioni del terzo piano (aprile 2018). In mezzo il "worst scenario" da 229,5 milioni (maggio 2017) e il secondo business plan rivisto al ribasso a 128,7 milioni.
A colpire negativamente l'Uefa è l'andamento dei ricavi certificati nella prima stagione del Milan cinese: zero. Lo certifica PWC ricordando i 19 e 9 milioni promessi nel primo (worst scenario) e secondo piano economico di Fassone. E aggiunge come "nessuno contratto firmato per il 2019 e 2020" sia stato portato al tavolo dei revisori.
La linea difensiva del Milan (e la replica Uefa)
Tra una bocciatura e l'altra, il Milan passa dalla speranza del voluntary agreement (prima richiesta nel dicembre 2016) all'esclusione dall'Europa League. Nelle osservazioni spedite alla Camera Giudicante prima dell'ultimo verdetto, contestando il settlement agreement negato, i manager rossoneri accusano la Uefa di aver giudicato mossa da pregiudizio verso Li, di aver mal interpretato i documenti e di non essere stata equa dimenticando che altri club in situazione di deficit simile avevano ottenuto il settlement.
I giudici di Nyon rispondono punto su punto e sottolineano come la gravità dello sforamento dei parametri (120 milioni) non sia l'unico metro di giudizio ma pesi anche il resto. Anzi, molto più il resto nel decidere (come poi la Camera Giudicante fa) che non solo il Milan va escluso dall'Europa League, ma che nemmeno si possa trasformare la sanzione in condizionale come richiesto in ultima istanza.
"La proposta di sospensione di misura disciplinare... dovrebbe essere fatta per incoraggiare la conformità con le regole del Fair Play Finanziario, non per permettere a una società di competere in una manifestazione Uefa su basi differenti rispetto alle altre" scrive la Camera Giudicante a pagina 31. La deviazione dai parametri del Milan non è considerata accettabile e, soprattutto, correggibile in un tempo definito "sotto un business plan che sia credibile e ragionevole" e dove "il management abbia dimostrato con i fatti un chiaro impegno a portare il club nelle regole".
Dunque, gli ultimi giudicanti si definiscono incompetenti a riaprire il dossier sul mancato settlement agreement (anche se sottolineando che, in caso di competenza, sarebbero arrivati alla conclusione che il Milan non ha provato un errore da parte dei giudici) e procedono con la squalifica. Ma a far male è la ricostruzione di 19 mesi che hanno spinto il Milan fuori dall'Europa con troppi errori e troppi punti oscuri non chiariti.