Il Ballo del Doge, ideato 31 anni fa dall’imprenditrice Antonia Sautter, è uno degli appuntamenti in maschera più attesi della Laguna. Ma anche una fucina di creatività che valorizza il talento.
Il suo spirito ludico non comprime la sua vocazione al business, ma ciò che più ossessiona Antonia Sautter, serenissima veneziana, è per sua stessa ammissione «l’estetica del Carnevale». Non a caso, il titolo del prossimo Ballo del Doge (10 febbraio 2024), l’evento più ambito e glamour del baccanale lagunare, da lei ideato, è proprio Carnival Obsession!. Partecipare al ballo è costoso, ma a detta di tanti è un’esperienza sontuosa che comincia con la prova dei costumi, nei pressi di piazza San Marco.
Quando è nato il suo atelier?
Uh, quasi non ricordo! Più o meno con Il Ballo del Doge, 30 anni fa. Quando Terry Jones mi coinvolse, nel 1993, nell’organizzazione di uno spot per la Bbc: avevo da poco aperto una piccola bottega artigianale, in San Marco. Alla fine delle riprese organizzai una festa in costume – il tema dello spot erano le Crociate – invitando anche tutti gli amici che avevano lavorato come comparse. Dal successo di quella festa improvvisata in un palazzo veneziano, nacque l’idea di organizzare un ballo in costume. Intanto i costumi delicati e ingombranti che continuavo a realizzare, per qualche anno, li stipai nella mia casetta di San Tomà, insieme a tessuti, maschere, macchine da cucire, tavoli da lavoro. Quando non sono più riuscita a entrare in casa mi sono decisa ad aprire l’Atelier di San Marco, lo stesso che oggi custodisce circa 1.500 dei miei costumi ed è aperto al pubblico tutto l’anno per l’esperienza della prova costumi.
Quante persone ci lavorano?
Come avrà intuito, la logistica è un tasto dolente a Venezia. Non esistono capannoni o spazi adatti a concentrare tutte le attività produttive di una azienda come la mia e pertanto ho distribuito le diverse fasi della lavorazione in spazi fisici diversi. Tra stamperia dei tessuti, sartoria e atelier lavorano con me una ventina tra sarte, modelliste e vestieriste. Ci sono tagliatrici, rifinitrici di cuciture, modelliste. Abbiamo anche un’esperta nella confezione di copricapi, un dettaglio che fa o disfa un abito d’epoca. Durante la stagione del Carnevale potremmo far lavorare ancora più sarte, ma trovare giovani leve è diventata un’impresa.
Come nasce un abito?
Ho la fortuna di vivere a Venezia, la città dove sono nata e cresciuta e che per me è una continua fonte d’ispirazione. Lavoro con la stessa squadra di sarte da anni e sono loro ad aiutarmi a tradurre in un abito le mie idee, anche le più ardite. Non so se le è mai capitato di fermarsi ad osservare il dettaglio architettonico sulla facciata di un palazzo, un tramonto sulla laguna, o ancora di passeggiare sulle fondamenta nella nebbia. Per alcuni sono dipinti naturali, per me bozzetti di abiti che si animano di colori. Negli anni, ho dedicato molti abiti a Venezia, cercando di coglierne i diversi aspetti: il mistero, la seduzione, la storia, la bellezza naturale. Amo le sue architetture e sfumature a tal punto da avergli dedicato anche una linea di accessori e kimoni in velluti di seta stampati a mano per poterla «indossare» ogni giorno. Parafrasando il Marco Polo di Calvino – quest’anno il Carnevale Veneziano è dedicato al nostro esploratore – potrei ammettere che «ogni volta che disegno un abito dico qualcosa di Venezia».
Che tipo di lavoro filologico viene fatto sui tessuti?
La ricerca iconografica è imprescindibile: consulto enciclopedie, riviste d’arte, vecchie stampe nei mercatini di vintage, dipinti dell’epoca. Anche internet, naturalmente. A volte aiuta usare in modo innovativo tessuti antichi destinati ad altri utilizzi, come quelli d’arredamento.
Molto potrebbe essere realizzato in India, ma lei si ostina a mantenere il «made in Venice».
Per me preservare il made in Venice significa fare la mia parte per mantenere viva la Venezia più autentica. C’è poi un altro aspetto che mi preme sottolineare; spesso si parla del saper-fare bene come di un valore da preservare, più raramente si sottolinea che il fare bene le cose fa stare bene. Rende più belle le nostre giornate, la nostra vita. L’alto artigianato, la vita «in bottega», non è da intendersi solo come una reliquia del passato da preservare, è anche una scelta di benessere: vivere slow, come si suol dire, e in modo creativo.
Eppure le botteghe sono sempre di meno.
Dal punto di vista di un’imprenditrice, Venezia ha tanti difetti e un grandissimo pregio: ti spinge a ingegnarti. Usare l’ingegno per trovare soluzioni, intendo. La recente esperienza di Homo Faber, cui partecipo con l’atelier, mi fa sperare che Venezia smetta di restare imprigionata nel suo passato, e si proponga come modello sostenibile di città del futuro. La «cittadella artigiana» dell’Arsenale è un sogno che condividiamo e coltiviamo. La nostra splendida città sull’acqua è la prova che i sogni più arditi si possono realizzare.
Secondo lei perché alla gente piace mascherarsi?
Perché un costume d’epoca di trasforma, ti fa viaggiare nella storia, rivelandoti aspetti della personalità che non sapevi neanche di avere. L’ho visto succedere davanti ai miei occhi così tante volte, ed ogni volta è una magia! Una maschera ti permette di sentirti libero, pensarti diversamente da come ti presenti ogni giorno. Meglio di un filtro social.