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Jeans che valgono come un tesoro

Jeans che valgono come un tesoro

Da quelli appartenuti a Steve Jobs o a popstar internazionali, a quelli tempestati di diamanti. Passando per pezzi antichi e modelli unici d’artista… Il denim è diventato un bene prezioso.


Pantaloni da lavoro e per il tempo libero? No, rarità da collezione. Non a caso ai più desiderati fra i jeans – quelli targati Levi’s – in concomitanza con la Design Week è stata dedicata al Mudec di Milano la mostra «Icons, Innovations & Firsts. Stories of Heritage and Progress from the Levi’s Archives»: un viaggio affascinante nel patrimonio del mitico marchio californiano di denim, che evidenzia l’evoluzione e l’impatto culturale dei moderni blue jeans a partire dalla loro invenzione nel 1873. La selezione dei modelli in esposizione (alcuni illustrano queste pagine) proveniva dagli archivi di San Francisco, città natale del brand, e comprendeva decine di pezzi storici: dal Levi’s Lot 201 Miner Jean, un jeans da lavoro ricoperto da gocce di cera di candela con le bretelle ancora attaccate, fino al più recente Levi’s 501 indossato da Steve Jobs, dal modello creato con la Warhol Factory che raffigura L’Ultima Cena reinterpretata da Andy Warhol, al Damien Hirst Spin Art 501 Jean, la giacca realizzata «in upcycling», con il riutilizzo sostenibile di materiali, per la collaborazione con Miu Miu.

Agli americani che rivendicano la paternità di questo tessuto, rispondono i puristi secondo cui il termine «blue jeans» avrebbe origine dalla dicitura «Bleu de Gênes» (blu di Genova), un robusto tessuto dalle sfumature cerulee usato per vele e teloni ed esportato dai produttori liguri in tutto il mondo fin dal XV secolo. Solo nell’Ottocento, sulla scia dell’emigrazione oltreoceano, la stoffa made in Italy sbarcherà in America, dove sarà utilizzata per confezionare divise destinate ai minatori. È proprio questo tipo di jeans «antico», adottato anche dai cercatori d’oro negli anni della Gold Rush (lo stesso periodo in cui il giovane immigrato tedesco Levi Strauss arriva in California), che ormai viene battuto all’asta a cifre da capogiro: valga, fra i più eclatanti, l’esempio di un paio di braghe in denim ormai immettibili, databili intorno al 1873 e rinvenute in una miniera del Nevada. Nel 2023 sono state vendute per 100 mila dollari durante il Durango Vintage Festivus – un appuntamento annuale per cultori di «second hand» che si tiene al confine fra Colorado e New Mexico – a un misterioso compratore thailandese. Nel 2022, sempre al Durango Vintage Festivus, altri jeans piuttosto malridotti, recuperati dai resti di un naufragio avvenuto nel 1857 lungo le coste del North Carolina, avevano raggiunto la cifra stellare di 114 mila dollari.

Sulla dinamica della quotazione pesa anche l’effetto-feticcio, come è accaduto con un paio di Levi’s personalizzati con inserti di stoffa e toppe colorate appartenuti a Kurt Cobain, il frontman dei Nirvana, che li aveva sfoggiati in numerose occasioni storiche, tra cui il video musicale diretto da Anton Corbijn per la canzone Heart-Shaped Box, sul palco durante un concerto alla Roseland Ballroom di New York, alla decima edizione degli MTV Video Music Awards e, da ultimo, in Francia il 12 febbraio 1994, durante il tour di In Utero: nel corso dell’asta Played, Worn & Torn: Rock ‘N’ Roll Iconic Guitars and Memorabilia, che si è svolta da Julien’s Auctions a Beverly Hills a novembre 2023, questi pantaloni, in cui si condensa la quintessenza dello stile grunge, hanno superato di 40 volte la stima iniziale di 10 mila dollari, e sono stati aggiudicati a un facoltoso fan della band per 412.750 dollari. Il giro d’affari globale del mercato del denim nel 2023 ha raggiunto i 59 miliardi di dollari, e si prevede che per il 2026 arriverà a sfiorare, secondo il rapporto Global denim jeans industry, realizzato da ReportLinker, i 79,1 miliardi, con una crescita trainata soprattutto da Cina, India, Corea del Sud, Brasile, Messico, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita.

Ma cosa può trasformare un jeans di razza in un oggetto di culto? Il «denim hunter» Brit Eaton, ideatore del citato festival in Colorado e fondatore a Durango di un rinomato vintage store, il Carpe Denim, osserva come – al di là dei ritrovamenti di cimeli d’epoca, destinati comunque a un’utenza di nicchia – la differenza la fanno la capacità dei brand di mantenere il segreto su certe tipologie di trattamento o di lavorazione del tessuto ottenute grazie alle tecnologie di ultima generazione (compresi laser e 3D), la possibilità di personalizzare in maniera esclusiva il modello base, e l’aggiunta di materiali deluxe. Chi pensa alle pietre preziose, non rimarrà deluso: già nel 2008 il marchio Secret Circus Clothing aveva fatto sfilare alla London Fashion Week un paio di jeans con le tasche posteriori decorate con 15 diamanti, per un totale di una quarantina di carati e con un prezzo al pubblico di 1,3 milioni di dollari. Il record assoluto nella storia dei jeans.

Al di là delle declinazioni-gioiello, il futuro del denim oggi si gioca sul fil vert della sostenibilità, a cominciare dall’impronta idrica del prodotto: Subramanian Senthilkannan Muthu, autore del saggio Sustainability in Denim (Woodhead Publishing), fa per esempio notare che «per realizzare un paio di jeans servono più di cinquemila litri d’acqua, usati per coltivare quei sei-otto etti di cotone necessari per confezionare un singolo pantalone». Della necessità di un cambio di paradigma si è parlato ad aprile ad Amsterdam durante i Denim Days, dove si è accolto con favore il ritorno del denim non trattato, 100 per cento cotone e unwashed, e dell’ascesa del tessuto riciclato. L’era del green jeans è iniziata.

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