Monte Carlo, viaggio nel Principato del gusto
Circa 170 ristoranti (molti stellati Michelin), in un territorio di soli 2,02 chilometri quadrati. Un «melting pot» di cucine di eccellenza per soddisfare una clientela cosmopolita ed esigente. Così, con una strategia rafforzata durante la pandemia, Monaco si è trasformata nel più alto concentrato di gastronomia al mondo. Un paradiso per gourmand di cui approfittare, e non solo in estate.
Le cronache mondane e il lusso ostentato, i mega-yacht e il Casinò-mecca, la Formula 1 e lo scintillìo di vetrine a parecchi zeri... Sono tanti i luoghi comuni sul Principato di Monaco, e sono tutti veri. Ma c’è qualcosa di più e di diverso, che questa minuscola Città-Stato conosciuta come Monte Carlo (il nome del distretto centrale) è riuscita a tirar fuori dall’elegante cilindro: si è trasformata nel più alto concentrato di cibo d’eccellenza al mondo. Nei 2,02 chilometri quadrati che la rendono il Paese più piccolo dopo lo Stato del Vaticano, convivono circa 170 ristoranti di cui ben nove stelle Michelin distribuite in sette ristoranti. Insomma, un vero e proprio polo del food.
Di per sé, questo spicchio di riviera a una ventina di minuti d’auto dal confine italiano lascerebbe un’impronta culinaria modesta, considerando che il piatto nazionale è il barbajuan, un raviolo fritto ripieno di bietola e ricotta consumato anche come amuse-bouche in compagnia di un buon champagne. Ma non è un problema, perché oggi è un attrattore di virtù culinarie internazionali, con chef che qui si incrociano trasformando il Principato in un melting pot di etnie e gusti che riflettono la variegatissima provenienza dei residenti: ben 132 nazionalità su circa 39 mila abitanti (i monegaschi non sono neanche 8 mila). Un condensato del cosmopolitismo altospendente mondiale.
Vi si trovano ristoranti latini, caraibici, mediorientali, asiatici, italiani. Francesi, soprattutto. E l’ultimo big ad arrivare direttamente da Parigi è Yannick Alléno, con il suo ristorante presso lo storico Hôtel Hermitage (nome completo: Yannick Alléno à l’Hôtel Hermitage Monte-Carlo), ornato da una delle più belle terrazze della Costa Azzurra, affacciata com’è sul porto e sulla Rocca.
Lo sbarco di monsieur Alléno è un evento, considerata la levatura del personaggio. Non soltanto perché detentore di svariate stelle Michelin in Francia, ma in quanto grande alchimista del gusto, inventore di una tecnica di crio-concentrazione con cui estrae le pure essenze degli ingredienti e poi le assembla in creazioni leggere quanto sofisticate. A cominciare dalle salse, emblema della cucina d’Oltralpe finora vituperato a causa dell’abuso di farina e burro, per finire con il cioccolato, che lo chef guida all’estrema esaltazione del cacao (non a caso ha appena aperto a Parigi un’imperdibile boutique del cioccolato, Alléno & Rivoire). In primavera, un ampliamento del ristorante ospiterà la versione monegasca del suo stellato parigino Pavyllon. «Sarà come il locale di Parigi, con il bancone gastronomico a creare un’atmosfera informale» anticipa lui a Panorama. Il merito di questa operazione va intestato alla Société des Bains de Mer, o Sbm, proprietaria dell’hotel e inarrestabile motore del Principato sin dal 1863, quando Carlo III Grimaldi (trisavolo dell’attuale sovrano Alberto II) decise di intercettare il primo turismo d’élite e puntare su un «cuore pulsante» che facesse da moltiplicatore di introiti: il monumentale Casinò. «Qui dobbiamo regalare sogno, piacere e bellezza» fu la frase chiave dell’epoca. E così è ancora oggi, con Sbm (principale azionista lo Stato monegasco) che nel tempo si è evoluta con locali notturni come il Jimmy’z, rinomate spa come le Terme Marine, nuovi alberghi come il Monte-Carlo Bay e decine di ristoranti. E si continua a progettare per farsi trovare preparati nell’era post-pandemica.
«Se uno vive di passato, muore» sintetizza Pascal Camia, direttore operativo di Monte-Carlo Sbm. «Vogliamo creare un resort totale e sicuro, dove ogni piacevole attività sia a distanza di passeggiata, e il food ne è una parte fondamentale. C’è spazio per il cibo stellato dei grandi nomi, ma anche per i brand internazionali che diventano nostri partner, come il Buddha Bar, il peruviano Coya e altri che arriveranno presto. Infine ci sono i nostri propri brand, come lo storico Café de Paris, il Deck, il Mada One e altri. La verità è che nel mondo possono esistere altre città che si propongono come destinazioni di stupore e divertimento, ma solo da noi si respira questa arte del buon vivere».
«Se non si progredisce si resta indietro» ama dire anche Alain Ducasse, altro mostro sacro del cibo francese che all’interno dell’Hôtel de Paris ha da tempo un glorioso ristorante tristellato, il Louis XV. E già che si parla del «de Paris», basta attraversare la hall di questo gioiello in stile Belle Époque per godere di un altro simbolo della dolce vita monegasca, il Bar Américain, con la sua inalterata atmosfera da Grande Gatsby, le luci soffuse e il cuoio delle poltrone dove mille celebrità si sono rilassate davanti a un drink (Frank Sinatra sedeva al tavolo 34 e ordinava una bottiglia di Jack Daniel’s). Per la cronaca, i migliori barbajuan del Principato si assaggiano qui durante l’aperitivo-must.
All’ottavo piano di questo stesso hotel si sale al Le Grill, una stella Michelin, vista strepitosa, forse il più monegasco dei ristoranti data l’assidua frequentazione degli abitanti locali. Lo chef Frank Cerutti propone una cucina del territorio rivisitata, su cui svettano i galletti grigliati e serviti appesi su un braciere che continua a inebriare le carni con le stesse erbe aromatiche della farcitura. Per dolce, imprescindibili i soufflé: da soli valgono il viaggio. Tanto, poi, per una cucina più leggera basta spostarsi all’Elsa, il primo ristorante totalmente biologico e sostenibile ad aver conquistato una stella Michelin (riaprirà in primavera).
Per il resto, c’è da sbizzarrirsi. Voglia di crudité? Si va al Les Perles de Monte-Carlo, aperto da due biologi marini in fondo alla diga di Fontvieille, dove chi ama i frutti di mare si sbizzarrisce con ostriche & co. Pesce più sofisticato? C’è il giapponese stellato Yoshi o l’Izakaya Cozza, con ricette del Sol Levante interpretate all’italiana, da un’idea dell’imprenditore del food Riccardo Giraudi. Thailandese? La risposta è Maya Bay. Sudamericano? Il Coya (da aprile) sublima i grandi classici della cucina peruviana. Un inconsulto desiderio di brasserie alla francese? Il Café de Paris in Place du Casino allieta da 150 anni con il suo stile Belle Époque, i piatti tradizionali e l’immancabile «people watching».
Insomma, elenco lunghissimo quello del più denso polo gastronomico al mondo. Un luogo dove i divi dei fornelli mettono in scena le cene-spettacolo del «Festival des Étoilés», con ospiti del calibro di Riccardo Camanini, Antonia Klugman e Mauro Colagreco (che qui ha anche un ristorante, il Komo Monaco) a cucinare a quattro mani con i «resident chef» stellati. Oppure aprono i loro temporary restaurant (lo ha realizzato Andrea Berton nel 2021), mentre altri italiani fanno rumore con la loro pizza (come Flavio Briatore e il suo Crazy Pizza) o con rinomati indirizzi tricolore. È il caso de La Table d’Antonio Salvatore Au Rampoldi, fresca stella Michelin, molto apprezzato non solo per l’alta qualità della cucina, ma perché in un luogo dove convivono 132 nazionalità, un suo piatto di spaghetti o il polipo con pomodori del Vesuvio e capperi di Pantelleria fanno subito esotico-glam. Che è una tendenza, riflessa nell’arrivo in aprile di Em Sherif (cucina libanese e mediterranea in un ambiente elegantemente orientale) e nel 2023 di Amazonico (mix di cucine tropicali, latino americane, mediterranee e asiatiche).
Per ora, a impersonare l’integrazione gastro-culturale è Marcel Ravin, nato in Martinica e chef al Monte-Carlo Bay Hotel & Resort dal 2005, dove al ristorante Blue Bay ha conquistato una stella Michelin grazie alla sua cucina innovativa che sposa ingredienti tropicali e mediterranei, l’eredità delle ricette della nonna creola con quelle delle nostre coste. Fusion, si diceva una volta. In Italia consideriamo un’eresia la cipolla nella carbonara? Lui spariglia con spaghetti di papaya verde alla carbonara tartufata. Il piatto più banale è l’uovo? E lui ne propone uno con tartufo e maracuja.
«Come chef sono cresciuto a Monte Carlo mentre Monte Carlo cresceva sulla scena food» racconta a Panorama. «Qui le cose sono possibili solo rispettando il luogo, i modi, le altre culture, senza imporre la tua ma dando un pochino della tua. E tutti quanti rispettando il Mediterraneo e i suoi prodotti». Così va il food.