Chi era Muhammad Ali, la leggenda del ring - Foto
La vita e le immagini di uno sportivo e di un uomo indimenticabile, "il più grande"
Muhammad Ali è scomparso dopo l'ultimo, più duro e lungo combattimento della sua formidabile vita il 3 giugno 2016, ma la sua leggenda è destinata a durare per sempre e non solo tra gli appassionati di boxe. Ecco perché in questo articolo pubblicato da Panorama.it in occasione della sua morte e che riproponiamo oggi, giorno di quello che sarebbe stato il suo 75° compleanno...
Dopo aver fatto a pugni per più di tre decenni con il morbo di Parkinson, diagnosticatogli nel 1984 poco dopo il ritiro dal ring, Muhammad Ali è morto a 74 anni in un ospedale della zona di Phoenix dove era stato di recente ricoverato per problemi respiratori.
L'anima della farfalla, quella celebrata nella sua autobiografia ("Con l'anima di una farfalla, il lungo viaggio della mia vita") è volata nel paradiso dei pugili per occupare il posto che ha avuto anche su questa terra: quello de "Il più Grande" ("The Greatest"), come Muhammad Ali - nato Cassius Marcellus Clay a Louisville il 17 gennaio 1942 - si è sempre autonominato senza timore di smentite. In uno sport predisposto almeno in passato a generare leggende, quella di Ali è stata e a questo punto rimarrà per sempre la più grande (proprio come lui), tramandata dai vecchi ai giovani, che finiranno per cercarla nei video dei tanti epici incontri raccolti in youtube.
Sonny Liston e il pugno (forse) fantasma
Il primo suo match da storia della boxe, quello della consacrazione dopo la medaglia d'oro vinta a Roma nel 1960 e gettata poco dopo nelle acque del fiume Ohio (nei pressi di Louisville) per essere stato respinto - lui, campione - da un locale riservato ai bianchi, fu quello combattuto contro l'altra leggenda nera Sonny Liston nel 1964. Sette riprese bastarono ad Ali per impossessarsi del titolo dei massimi, "festeggiato" il giorno successivo con la conversione all'Islam che lasciò a bocca aperta l'America, così come la "rivincita" del 1965 lasciò a bocca aperta tutti gli spettatori che videro Liston abbattersi al suolo al primo round non appena colpito da Ali.
Allora ci fu chi parlò di "pugno fantasma", con l'ombra della mafia ad allungarsi sulla figura non propriamente candida di Liston, oggi diversi esperti - rivedendo le immagini alla luce delle più innovative tecnologie - parlano di un colpo alla tempia così rapido da risultare invisibile. Sia come sia, l'immagine di Ali che sovrasta Liston invitandolo a rialzarsi è diventata uno dei tanti epici scatti che "Il più Grande" ha regalato ai fotografi a bordo ring.
Il "no" al Vietnam e la rissa nella giungla
Poi, dopo quella vittoria, la difesa del titolo per altre otto volte e quindi il rifiuto il 29 aprile 1967 a partire per il Vietnam con l'ormai celebre frase "Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro": una presa di posizione che lo portò a non poter combattere sino al 1971 per il ritiro della licenza da parte delle autorità americane. Quindi, dopo il rientro e due match vinti per ko tecnico, il famoso "incontro del secolo" per il titolo mondiale contro Joe Frazier, in cui Ali venne sconfitto ai punti. Ma non vinto: ancora pugni, ancora provocazioni, ancora qualche sconfitta (inclusa quella contro il "mandingo" Ken Norton) e tante vittorie sino alla "rissa nella giungla" - "The Rumble in the Jungle", come si intitola anche il film che l'ha consegnata alla storia - in cui mandò ko George Foreman davanti alla folla entusiasta di Kinshasa, in Zaire, che accompagnò tutto l'incontro con un ossessivo "Ali boma ye!" ("Ali uccidilo!") che non lasciava dubbi su quale dei due pugili fosse considerato un vero nero della Terra d'Africa.
Il declino, ma solo sul ring
Una formula, quella dell'assoluta spettacolarizzazione del match per farlo diventare qualcosa di più di un semplice evento sportivo, replicata poi nel 1975 nel terzo e ultimo incontro contro Joe Frazier (con cui Ali si era già preso la rivincita all'inizio del 1974): "Thrilla in Manila" fu questa volta il titolo del kolossal pugilistico che portò ancora una volta la boxe americana al di fuori dei confini degli States in un'epoca in cui salire sul ring poteva farti sconfinare nel mito. A patto di combattere come Ali, come "Il più Grande", il cui declino - graduale, ma inesorabile - iniziò di fatto proprio dopo quella vittoria su Frazier.
Alla fine, intesa come 11 dicembre 1981 (data del suo ultimo match perso ai punti contro Trevor Berbick), il bilancio parla di 61 incontri con 56 vittorie, di cui 37 per ko; cinque invece le sconfitte, di cui una sola prima del limite a opera di Larry Holmes nel 1980, nell'ultimo tentativo da parte di Ali di riconquistare il titolo mondiale Wbc.
L'ultima vittoria ad Atlanta
Ma questa è in fondo solo la parte sportiva: quell'altra, quella delle battaglie politiche e sociali, inframezzate da una vita privata altrettanto movimentata (quattro mogli, sette figlie e due figli), è andata avanti senza soluzione di continuità. Con un'immagine diventata icona alla pari delle tante altre in guantoni e pantaloncini: quella di Ali che, ormai scosso dal morbo di Pakinson, accende la fiaccola delle Olimpiadi di Atlanta 1996. Più forte della malattia anche se non più capace di volare come una farfalla e pungere come un'ape, come raccomandava la sua ricetta per uscire a braccia alte da ogni incontro. E dalla vita.