concertone 1 maggio
(Ansa)
Musica

Al concertone del 1 Maggio funziona solo chi ha pezzi e mestiere

Troppa la differenza, a Piazza San Giovanni, tra le mediocri esibizioni pomeridiane e quelle serali, dove Ligabue, Piero Pelù e Righeira apparivano di un’altra categoria

«Questa è la canzone del complesso del primo maggio/ che in genere si esibisce sotto il sole di pomeriggio/con la chitarra acustica accordata calante/che la gente che balla a torso nudo neanche la sente». Questo folgorante incipit di Complesso del primo maggio, canzone degli Elio e le Storie Tese del 2013, descrive perfettamente l’atmosfera straniante e sospesa del lungo, anzi, lunghissimo pomeriggio musicale del concertone del Primo Maggio, tra chitarre scordate, intonazioni zoppicanti, esibizioni rapsodiche e canzoni non certo memorabili, in attesa delle esibizioni serali dei big.

Dopo quasi cinque ore pomeridiane, nelle quali le nostre orecchie sono state messe a dura prova dalle performance sghembe di Giuse The Lizia, Nema Ezza, Alfa, Wayne, Il Tre e BNKR44 (almeno Ciliari è stato onesto nella sua emblematica Giornata di merda) fino al provvidenziale “gong” delle ore 19 a causa dei Tg, in serata Piero Pelù ci sembrava il Mick Jagger di Let It Bleed , Rocco Hunt l’Eminen del Vesuvio, Mara Sattei la risposta romana ad Adele e Ligabue un Bruce Springsteen con 10 anni di meno sulle spalle.

Ovviamente non è stato tutto da buttare (bene Paolo Benvegnù, Fulminacci, Baustelle, Gaia, Epoque e Napoleone), ma la qualità media delle esibizioni pomeridiane avrebbe a fatica soddisfatto il pubblico della sagra della patata di Leonessa.

Capiamo l’esigenza di riempire un lungo palinsesto e di cercare di accontentare i gusti variegati della piazza, ma una manifestazione così importante, finanziata dai sindacati e da grandi sponsor, dovrebbe avere, anche nella parte pomeridiana, una sua anima e una sua coerenza artistica, pur nelle ovvie e auspicabili differenze di stili. Mentre, fino a qualche anno fa il concerto del Primo Maggio era anche una questione identitaria, che indicava l’adesione, prima ancora che ha un genere musicale, a un certo modello culturale e politico, ormai l’evento organizzato dai tre principali sindacati è lo specchio del mercato musicale e, in fondo, della società italiana: autarchica (ieri sul palco di San Giovanni è salita una sola cantante straniera, la talentuosa e raffinata Aurora), iperconnessa, conformista e polarizzata intorno a Ciò Che Ha Successo, che sia una canzone, una serie tv o un grande tema politico poco importa. Se la radio, la tv o Instagram ci ripete quotidianamente che X ha miliardi di stream, Y ha milioni di follower o che Z è una battaglia fondamentale della nostra generazione, per una sorta di social proof ipersemplificata, allora vale la pena seguire l’onda mainstream, a prescindere dal talento, dalle qualità o dell’effettiva rilevanza. Lo dimostra il fatto che ieri hanno acceso molto più la piazza di San Giovanni la romantica Tango di Tananai, la trascinante Cenere di Lazza o la neomelodica O Mar For di Matteo Paolillo rispetto all'immancabile Bella Ciao eseguita con mestiere dall’Orchestraccia, in quella che, fino a pochi anni fa, era il fiore all’occhiello dei Modena City Ramblers e il momento più identitario e partecipato dell’evento.

Emblematico anche il fatto che abbia suscitato maggiore clamore mediatico sui social e sui siti web la battuta di Ambra sulla Lazio (“Il diritto che mi manca è quello di tifare Lazio a Roma centro senza essere corcato”) rispetto all’attacco frontale del fisico Carlo Rovelli al ministro della difesa Guido Crosetto, definito un “piazzista di strumenti di guerra”: la politica è ormai un rumore di fondo, coperto dalle alte note del Concertone. Non è un caso che fino a qualche anno fa il Concertone del Primo Maggio e il Festival di Sanremo erano “due secoli contro l’altro armati”: uno rappresentava la controcultura e l’indie rock in senso lato; l’altro le canzoni d’amore commerciali, il mercato e le major.

Adesso che l’indie, da qualche anno, non è altro che un atteggiamento residuale di artisti che hanno firmato ricchi contratti con una delle tre principali major, tutto si è mischiato e, in fondo, tutto ha perso senso, se non quello di realizzare la hit che funziona in streaming: e poco importa se la volubilità dei gusti dei più giovani e la frammentarietà del mercato musicale renderà presto superato anche un buon successo radiofonico o su Spotify. Non è certo un mistero che gli artisti oggi vivono quasi esclusivamente grazie ai proventi dei concerti live, mentre gli album fisici e i ricavi dello streaming sono ormai un business marginale. Però il Concertone di ieri ha confermato ancora una volta, nel serale, che la musica è un mestiere che richiede preparazione, studio, talento e doti interpretative e comunicative. Il mito effimero dell’adolescente che scrive un successo dalla sua cameretta e diventa in pochi mesi una star quasi sempre si infrange dolorosamente alla prova del live, dove, per quanto oggi la tecnologia possa aiutare attraverso autotune e basi pre-registrate, non si può barare. Ecco perché Ligabue, Piero Pelù e i Righeira, alla prova del live del Concertone 2023, sono apparsi di un’altra categoria anche rispetto a chi ha molti più streaming di loro sulle piattaforme digitali: perché hanno un mestiere, hanno fatto centinaia di concerti e hanno una discografia che consta di numerose canzoni che hanno resistito nel tempo, per questo sono meno soggetti alle inevitabili montagne russe dei gusti e delle mode musicali del momento.

Un altro elemento che accomuna Sanremo con il Primo Maggio è l’eccessiva proposta di nomi, con una selezione all’ingresso fin troppo allegra e dalle maglie larghe. Così come si ricordano su una mano le canzoni di Sanremo 2023, anche a soli tre mesi di distanza dalla fine, così sono davvero pochi gli artisti che ci hanno colpito nel pomeriggio del Primo Maggio. Anche l’esigenza di dover lanciare per forza dei messaggi sociali, soprattutto da parte di artisti ancora poco strutturati, appare troppo spesso come una stanca liturgia che non il frutto di uno spontaneo afflato. Chiudiamo queste riflessioni con un breve aneddoto personale. Alla conferenza stampa del Concertone di San Giovanni del 2011, una giornalista chiese a Francesco De Gregori, che quell’anno si esibiva insieme al compianto Lucio Dalla, di fare una dichiarazione su un atto politico del governo di allora. Il Principe, con la consueta e aristocratica flemma, rispose tranchant: «No comment: tutto quello che ho da dire lo trovate nelle mie canzoni».

Ecco, ci piacerebbe che nel 2023 le canzoni, al concerto del Primo Maggio e non solo, raccontassero storie interessanti nelle quali ci possiamo davvero rispecchiare, uscendo dagli angusti confini della contingenza e dalla dittatura del numero degli stream. Perché l’unico numero che conta davvero è quello delle canzoni che riescono a entrare profondamente nel cuore delle persone, anche ad anni di distanza dalla loro pubblicazione, senza la data di scadenza che oggi hanno, inevitabilmente, troppi brani fast food, scritti male ed eseguiti peggio.

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Gabriele Antonucci