Enrico Ruggeri: "Ho fatto pace con le donne"
Tra musica e tv il cantautore racconta del suo passato al liceo milanese, delle femministe contro e delle ferite d'amore
Enrico Ruggeri si siede, accende una sigaretta e sembra tuffarsi perplesso in momenti vissuti di già. Con Bianca Guaccero è il narratore del nuovo programma del sabato sera su Rai 1 Una storia da cantare. La vita, le canzoni, le parole di tre divinità della musica italiana: Fabrizio De André, Lucio Dalla e Lucio Battisti. «La canzone dell’amore perduto mi commuove ogni volta», racconta. «Di Battisti invece la mia preferita è Non è Francesca. C’è dentro tutto, come in Delitto e castigo di Dostoevskij. È riuscito ad andare oltre».
E lei è mai riuscito ad andare oltre?
Ho sempre risalito la corrente come un salmone. Con orgoglio, fierezza, determinazione e autonomia. Cercando di tenermi lontano dalle leggi del mercato.
Qual è stato il rapporto col mercato?
Ho inciso 35 album e fin dall’inizio ho avuto la fortuna di capire che non avrei mai fatto un concerto a San Siro, ma non sarei mai scomparso.
Come le sembrano i giovani che partecipano ai talent?
Ho fatto anche il giudice anni fa. Il vizio di forma è che viene scelto quello che canta meglio. Eppure la gente non va a vedere Vasco perché è un portatore del bel canto. Ma perché nelle sue canzoni si riconosce.
E allora cosa vale oggi?
Il tempo stabilisce la differenza tra la trovata e l’idea. La seconda puntata è dedicata a Dalla. È sempre stato spiazzante. Adoro La casa in riva al mare. Fotografica, suggestiva, l’apoteosi della fantasia. Non è una trovata, è l’esplosione del genio.
I rapper li ascolta?
Il mio primo concerto è stato Emerson Lake & Palmer. Ero a Londra al Marquee a camminare sul vomito sotto il palco dei Clash. È difficile che arrivi a casa e abbia voglia di sentire il disco di un nuovo rapper.
Forse perché proviene da un milieu borghese come De André.
Vengo da due famiglie nobili e ricchissime che hanno perso tutto quando sono nato io. Ho l’aristocratico disprezzo del denaro e la rabbia dei poveri. Se parti ricco sei svantaggiato. Hai meno Garra Charrúa, termine calcistico uruguayano per definire la voglia di vincere degli ultimi.
Sua madre com’era?
Un’insegnante, come molte donne della sua generazione una vittima designata, votata al sacrificio. E pronta a rinfacciarlo.
Anche ai figli?
Sono figlio e nipote unico di una serie di zie senza figli. Uno dei ricordi della mia infanzia sono io sul vasino che urlo: «Ho finito» e loro che corrono e quasi si picchiano per pulirmi.
Il primo nome con cui si è presentato al pubblico nel 1974 è stato Champagne Molotov, cosa significava?
Barricaderi, ma raffinati. Erano gli «anni di piombo». Frequentavo il liceo Berchet a Milano, nella classe a fianco alla mia c’erano Marco Barbone e Paolo Morandini, gli assassini di Walter Tobagi. Il giornalista era amico del padre di Morandini, critico cinematografico. Il figlio si informò dal padre dei suoi orari e lo andò ad ammazzare. Questi erano i ragazzi che frequentavano il Berchet. Il più perbene era Gad Lerner.
Quanto la politica ha influenzato la musica di quegli anni?
Le femministe interruppero un mio concerto. Dicevano che il modo di tenere l’asta del microfono simulava un gesto fallocratico. Mi ricordo che portavo i Ray-Ban graduati perché ero miope. Erano considerati occhiali di destra. Quando mi fermavano per menarmi, gridavo: «Non sono fascio, non ci vedo». Come se la miopia fosse di sinistra e la fotofobia di destra.
Eppure lei è sempre stato considerato uomo di destra.
Non essere di sinistra non vuol dire essere di destra. Temo che il mondo sia retto da una decina di persone che decidono il presidente degli Stati Uniti o dove scoppierà la prossima bolla finanziaria. Penso che i flussi migratori siano uno stratagemma per abbassare il costo del lavoro. E creare una guerra tra poveri a vantaggio del padrone. Come avrebbero detto al Berchet.
Dopo il periodo punk portò Contessa al Festival di Sanremo.
La solita canzone permeata dal rancore, non mi ricordo più verso chi. Erano gli anni in cui avevo un rapporto conflittuale con le donne.
Come mai con tutte quelle zie?
Sono passato dall’infanzia, dove pensavo che la donna fosse un angelo mandato da Dio per fare felice l’uomo, all’adolescenza quando ho iniziato a capire che invece era stata inviata al mondo solo per metterti alla prova. La pax arrivò a 30 anni con Quello che le donne non dicono.
L’amore com’è stato?
Dipende da quanto sei bravo ad affrontare le sue varie fasi. Quello vero, che strappa i capelli, dura due anni, tre anni. Poi ci sono i progetti comuni, la complicità, i lavori condivisi. Non sempre ce l’ho fatta. Ma i bilanci si fanno alla fine.
I conti con la droga li ha fatti?
Nella Milano anni Ottanta era difficile non caderci. Pippavano tutti, anche gli operai che mi ristrutturavano la casa. Quello che ancora mi dà fastidio è che si creava una complicità con gente che non avrei mai neanche salutato.
Oggi?
Sono diverso io. Forse Milano è uguale.
È felice?
È una parola grossa. Come dissi una volta, parlando dei Decibel: «Sono in guerra e mi piace».
© riproduzione riservata