Fabrizio De André: 25 anni senza il poeta ribelle della scuola genovese
L’11 gennaio 1999, dopo aver combattuto per anni contro una grave malattia, ci lasciava Faber, uno dei nostri cantautori più importanti e originali
«Fabrizio non è morto. Vivrà sempre negli spazi profumati della poesia, che è eterna». Con queste parole la scrittrice Fernanda Pivano, all'indomani della morte di Fabrizio De André, si è espressa a proposito del cantautore, suo grande amico e da lei definito "la voce di Dio", scomparso l’11 gennaio 1999 dopo aver combattuto per anni contro una grave malattia. Sono passati venticinque anni dalla scomparsa di Faber, appellativo datogli da Paolo Villaggio a causa della sua predilezione per i pastelli e le matite della Faber-Castell, oltre che per l'assonanza con il suo nome.
Un notevole lasso di tempo che, invece di offuscare il valore culturale e popolare del suo lavoro, rende ancora più doloroso il distacco dal cantautore genovese, specie se paragonato al desolante panorama odierno della musica italiana di largo consumo. Da Bocca di Rosa a Don Raffaé, da Il testamento a Un giudice, da La canzone di Marinella a Il bombarolo, da Smisurata preghiera a Verranno a chiederti del nostro amore, oggi le canzoni del cantautore genovese occupano un ruolo centrale nella storia della nostra canzone. La produzione di De André è disseminata di capolavori, dalle crude ballate degli anni Sessanta fino alle composizioni più audaci e impegnative, come gli album Le nuvole e Anime salve, passando per l'affresco Creuza de ma, indicato tra i più importanti dischi di world music in assoluto. Un "falegname di parole" che ci ha lasciato in dote 131 canzoni, da Nuvole barocche uscita nel 1961 fino all’album Anime Salve del 1996, più gli inediti usciti postumi nel 2008. È dell'amico Paolo Villaggio, con il quale ha condiviso gli anni della formazione umana e artistica tra i caruggi di Genova, una delle migliori definizioni di De André: «Fabrizio era intelligente, geniale, allegro, spiritoso, squinternato, un po’ vanitoso, snob: non era triste, come voleva l’immagine pubblica che gli avevano dipinto addosso. Era un anarchico, grande poeta». In realtà Faber non amava particolarmente la definizione di poeta, ma si considerava più semplicemente un cantautore: «Benedetto Croce diceva che fino ai diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io, precauzionalmente, preferirei considerarmi un cantautore».
De André si serviva della musica per raccontare l'uomo, la sua vita, le sue fragilità. Ha saputo portare al centro dell’attenzione chi da sempre era considerato e collocato ai margini della società: i perseguitati, gli emarginati, i ribelli e le prostitute. Le strutture musicali delle sue canzoni, con una particolare predilezione per il folk, il jazz e il blues fino alla musica medievale e rinascimentale, sono sempre state funzionali al testo, così come le irregolarità metriche e le libertà poetiche. Faber era un impareggiabile cantastorie, in grado di trasportarti per mano al centro della vicenda che narrava, partendo quasi sempre da un determinato episodio di vita per poi raccontare “le umane cose” ed il loro evolversi secondo schemi prestabiliti e sempre uguali. A meno di un atto di coraggio che implica il voler essere sé stessi, liberi da qualsiasi etichettatura sociale: un atto che, spesso, si paga caro. La diversità di Faber dagli altri cantautori della sua epoca era evidente fin dall'aspetto, con il viso pulito, l'aspetto curato e quel ciuffo mosso che quasi gli copriva un occhio, ma soprattutto nell'interpretazione: la sua voce profonda, elegante e con una dizione perfetta scandiva le parole con una chiarezza, con una velocità e con una comunicativa da consumato attore. De André dava voce a personaggi a volti discutibili, a volte ripugnanti, non di rado antitetici alla sua visione della vita, senza paura di affrontare argomenti difficili e scomodi, senza mai strizzare l'occhio ai gusti del pubblico: si pensi a Il giudice, Il pescatore e a Don Raffaè.
Non si può prescindere dalla forza dei suoi testi e dalla curiosità che trasmetteva, in modo naturale, portando l'ascoltatore, quasi senza accorgersene, a leggere L’antologia di Spoon River, i Vangeli Apocrifi o ad ascoltare Georges Brassens, Leonard Cohen e Bob Dylan. Il cantautore genovese ha avuto il merito di aver liberato il dialetto dalle pastoie delle vecchie ballate popolari, traghettandole nella musica moderna e assegnandogli una centralità che non avevano mai avuto prima di lui. Insieme a Bruno Lauzi, Gino Paoli, Umberto Bindi e Luigi Tenco, De André è stato uno dei principali esponenti della cosiddetta scuola genovese ed è l'artista con il maggior numero di riconoscimenti da parte del Club Tenco, con sei Targhe e un Premio Tenco. Durante la sua carriera, stroncata a soli 59 anni, Faber ha collaborato con Premiata Forneria Marconi (indimenticabile il tour congiunto del 1979), Ivano Fossati, Mauro Pagani, Nicola Piovani, Massimo Bubola, Alvaro Mutis, Fernanda Pivano e Francesco De Gregori. I grandi amori della sua vita sono stati due: la prima moglie Enrica Rignon, detta Puny, da cui ha avuto nel 1962 il figlio Cristiano; la collega Dori Ghezzi, da cui è nata nel 1977 la secondogenita Luisa Vittoria, soprannominata teneramente Luvi. Con Dori Ghezzi il cantautore ha condiviso nel 1979 la terribile esperienza del sequestro alle pendici del Monte Lerno presso Pattada, nella Sardegna settentrionale, per quattro mesi. Un incubo terminato il 21 dicembre 1979, dopo il versamento di oltre 500 milioni di lire per il riscatto (in buona parte pagati dal padre Giuseppe). Il cantautore raccontò quei mesi di prigionia nella canzone Hotel Supramonte, contenuta nell'album L'indiano del 1981. De André, all'indomani del rilascio, dichiarò: «Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai».