Green Day a Milano: il punk non è ancora morto
La band di Berkeley ha richiamato ieri sera all’Ippodromo La Maura quasi 80.000 spettatori, di cui alcuni non erano nemmeno nati quando sono usciti gli album Dookie e American Idiot
Ottantamila spettatori, 36 canzoni in scaletta, due ore e mezza di show. Questi, in estrema sintesi, i freddi dati del concerto dei Green Day all’Ippodromo La Maura di Milano, uno degli appuntamenti più attesi della rassegna I-Days, ma dietro ai numeri c’è un fatto molto più importante: il punk non è morto, ha solo cambiato forma.
Il 2024 è davvero l'anno dei Green Day: prima la pubblicazione, il 19 gennaio, del quattordicesimo album in studio Saviors, che sta avendo un grande successo in tutto il mondo; a febbraio la ricorrenza del trentennale di Dookie, il disco che li ha consacrati definitivamente a livello internazionale, catapultando il trio formato da Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Tré Cool al di fuori dall’underground; a settembre, infine, compirà 20 anni American Idiot, il loro lavoro più politico, che ha riportato il pop-punk ai vertici delle classifiche del terzo millennio.
Il concerto di ieri a Milano, pur iniziato con il recente brano The american dream is killing me tratto dall'ultimo album Saviors, è stato una grande celebrazione della storia di una delle band più importanti della seconda ondata del punk, nata mentre il grunge aveva già segnato l’ultima grande rivoluzione del rock. Mentre nella prima metà degli anni Novanta gruppi come Nirvana, Pearl Jam e Soundgarden dominavano il mercato, tallonati a breve distanza dal colto alt rock dei R.E.M., i Green Day si misero in luce per uno stile musicale completamente diverso, fatto di canzoni pop-punk brevi, veloci e immediate, ispirate dall’hardcore melodico di gruppi come Bad Religion.
Pur lontano dalla furia iconoclasta del movimento musicale nato in Inghilterra nella seconda metà degli anni Settanta, che nel giro di un paio d’anni spazzò via l’hard rock e il progressive con i suoi testi crudi, nichilisti e all’insegna del “No future”, il pop-punk si è distinto per una maggiore predilezione per la melodia e per la tecnica strumentale, pur non mancando una forte componente politica e sociale. Emblematico, in questo senso, è l’album American Idiot, di cui ieri sono stati suonati diversi brani, un attacco frontale alla politica espansionistica americana e agli stereotipi dell’american way of life.
Curioso che molti spettatori accorsi ieri all’Ippodromo La Maura di Milano non erano nemmeno nati o al massimo andavano alle elementari quando è uscito nel 2004 l’album più politico dei Green Day, un gruppo che è riuscito a fare breccia anche nei cuori di una parte della Generazione Z che non si riconosce nell’immaginario della trap, dopo essere stata per anni la colonna sonora degli adolescenti della Generazione X, sebbene divisa nelle fazioni grunge e pop-punk.
Da Longview a Basket Case, da American Idiot a Boulevard of Broken Dreams, fino alle ballad Wake me up when September Ends e Good Riddance, il concerto ha confermato la ricchezza del repertorio dei Green Day, a loro agio indifferentemente sia nei brani più punk e veloci della durata di tre minuti che nelle canzoni più morbide e melodiche, con un maggiore sviluppo strumentale. «Non ho nessun rimorso per aver portato il punk nel mainstream. Volevamo essere indipendenti da tutto, anche dalle regole del punk stesso. Non era quella la nostra missione, noi volevamo solo fare musica per il resto della nostra vita», ha dichiarato Billie Joe Armstrong parlando della recente riedizione di Dookie.
Considerando che la band si è formata a Berkeley nel lontano 1986, il fatto che, a quasi quarant’anni dalla loro nascita, i Green Day richiamino ancora 80.000 spettatori a un loro concerto, con un pubblico che varia dagli adolescenti fino ai cinquantenni, vuol dire non solo che la missione di suonare musica per il resto della loro vita è a buon punto, ma che il fuoco del punk, sebbene nella sua versione più mainstream, brucia ancora e non ha alcuna intenzione di spegnersi.