Katy Perry, «143»: un disco dance pop senza canzoni memorabili
Ai nuovi brani della popstar manca quel tocco magico che rendeva ogni suo singolo un tormentone da classifica
Nel complesso mondo del pop di oggi il magic touch, ancor più che in passato non è è per sempre. Nessuno può negare che Katy Perry sia stata una regina delle classifiche in questo millennio. Di dischi e canzoni ne ha azzeccati quanto basta per avere un posto nella storia.
Se però il buongiorno si vede dal mattino, entrando nel merito di 143, difficile prescindere dall'accoglienza ricevuta dal primo singolo in chiave femminista, Woman's World, stroncato da gran parte della critica. Anche per ragioni extramusicali, ovvero la scelta di tornare a collaborare con Dr. Luke, il produttore trascinato in tribunale dalla cantante statunitense Kesha con l’accusa di aver abusato sessualmente di lei. La questione si è poi chiusa con un accordo giudiziale tra le parti che hanno rinunciato ad andare a processo.
Altre storie, che con la musica non hanno a che fare. Detto questo, la sensazione che emana l'ascolto dell'intero album è che Katy Perry sia rimasta dov'era, e cioè a uno schema di pop dance che oggi suona inevitabilmente datato e un po' stantio. Non sarebbe un problema, perché nessun artista è obbligato a sintonizzarsi con sonorità che non gli sono proprie.
La questione è un'altra e riguarda le canzoni: la Perry sembra aver perso la formula magica, quella che trasformava ogni sua canzone in una hit sbancaclassifche. Brani come Lifetimes, Nirvana e Crush non entusiasmano, come il resto del disco, perché sono impersonali e non attraversate da quella luce che faceva risplendere i pezzi. Nel pop mainstream sono le canzoni che fanno la differenza: orecchiabili in genere lo sono tutte, ma non basta, perché contano i dettagli, l'intenzione e la capacità di cambiare senza snaturarsi. Vedi Lady Gaga. Ecco, in 143 quel che latita sono proprio i pezzi. Che volano via una dopo l'altro senza lasciare il segno e nemmeno la voglia di riascoltarli.