Sanremo 2021: la rivoluzione (musicale) che non c'è
Canzoni senza guizzi, stereotipate e appiattite su uno standard sonoro che non è nuovo e nemmeno vecchio, solo noioso. Con qualche piacevole eccezione...
Doveva essere il Festival dello svecchiamento, quello che avrebbe sdoganato la nuova scena musicale italiana, i nuovi suoni, compreso quel mischione terribile, tra rap, trap, autotune e ritornelli melodici vecchio stile. La prova provata di questa rivoluzione annunciata stava nel cast dei Big, popolato come mai prima da artisti che agli over 50 (ovvero il pubblico più affezionato al Festival) risultano per lo più sconosciuti.
Sconosciuti al pubblico adulto perché vanno forte nelle playlist di Spotify, perché hanno un pubblico social che le radio mainstream non le ascolta, sconosciuti, soprattutto, perché parte di una scena musicale dove le differenze sono anestetizzate, dove le basi musicali si assomigliano pericolosamente annullando qualsiasi differenza tra un artista e l'altro. Al resto ci pensa autotune, quel trucchetto che raddrizza la voce, ma che che produce un effetto sonoro per cui tutti i cantanti o presunti tali alla fine sembrano uguali.
Quel che si è innescato dal punto di vista musicale è un corto circuito tipicamente sanremese: gli artisti della vecchia guardia che tentano di suonare moderni senza riuscirci e quelli di nuova generazione impegnati a "sanremizzarsi" per accontentare un pubblico più grande della cerchia dei loro fan adolescenti. Così, al momento, nella classifica parziale si contendono il primo posto Ermal Meta e Annalisa, in ogni caso due veterani del Festival con due brani classici che, piacciano meno, di rivoluzionario non hanno nulla.
Il risultato è un appiattimento totale in cui si salvano i pochi che hanno avuto un guizzo, un sano desiderio di non omologarsi verso il basso: Colapesece-Dimartino hanno un pezzo cactchy nel senso migliore del termine, La Rappresentante di Lista è un'esplosione di vitalità, Ermal Meta ha semplicemente un buon pezzo e i Coma_Cose sono credibili quando cantano e si guardano negli occhi. I Maneskin hanno il coraggio del rock and roll, di alzare il volume della chitarra e di far vedere che sanno suonare e stare su un palco in mezzo ad una platea di coetanei che sotto i riflettori dell'Ariston sembra più che altro in preda al panico. Ecco, si salva questo e poco altro, in un Festival che ha mandato in scena ragazzi senza esperienza, alle prese con una sfida molto più grande di loro e delle loro capacità tecniche. E Achille Lauro? Non è più una sorpresa, non fa scandalo e lo si nota più per il look che per la voce. Repetita non iuvant...
In sintesi, troppo poco per parlare di una rivoluzione musicale che in realtà non c'è stata, con tredici canzoni per sera (lunedì e martedì) affogate in un mare di sketch e siparietti infarciti di richiami alla musica del passato e trapassato remoto. Con gli ultimi artisti in scaletta ad esibirsi abbondantemente dopo la mezzanotte, come fossero degli intermezzi rispetto all'atmosfera da varietà d'altri tempi. Fiorello e Amadeus tengono sì in piedi la baracca, ma le canzoni sono quel che sono, e molte tra quelle in gara sono destinate a un oblio rapido non appena si spegneranno le luci all'Ariston. Quando ci dimenticheremo felicemente delle stonature su Io vagabondo dei Nomadi interpretata da Fiorello, Amadeus, Ibra e Mihajlovic... Anche no.