Verso il Natale: alle origini della Natività (nell'arte)
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Verso il Natale: alle origini della Natività (nell'arte)

Il critico di Panorama dedica il suo nuovo libro alla «Natività», un tema che mette in comunicazione il sacro e l’umano dalle origini dell’arte italiana in poi. E un vertice espressivo è quello raggiunto nella Siena del Trecento dalla Madonna del latte di Ambrogio Lorenzetti

Non c’è tema più universale, più umano, più assoluto, della maternità. La Madonna e il bambino, ovvero la madre con il figlio sono il soggetto più frequente di tutta la pittura moderna da Cimabue fino alle soglie del Novecento. Tra i motivi più rappresentati, consentendo l’umanissima esibizione della nudità, c’è l’allattamento che, nella tradizione bizantina, è rappresentato nella Galaktotrophousa, ovvero la madre che allatta. Pensare che una moderna, e laicissima, interpretazione della mamma che nutre con il latte, condizione primaria per la vita di un bambino, e immagine indimenticabile possa esprimere «valori rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini» è una insensatezza che indica la confusione dei tempi nei quali, credendo di unire, si divide. Eppure è successo di recente, con la statua di una donna che allatta dal titolo Dal latte veniamo e realizzata da Vera Amodeo. È stata donata dai figli dell’artista alla città di Milano, ma una commissione del Comune ha rifiutato di collocarla in un luogo pubblico.

Un artista e consapevole della creatività come della maternità concepisce la sua Maternità pensando di trasmettere l’emozione del momento nel quale non si può che riconoscere l’origine del mondo. Il suo universalissimo contenuto tocca vertici espressivi con Giotto, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Masaccio, Giovanni Bellini che hanno illustrato, entro l’aura religiosa, il momento di intimità della madre con il figlio, talvolta riportando la dimensione sacra della immagine a quella umana proprio nella descrizione dell’allattare, così dolce e fisica. Lo vediamo in Ambrogio Lorenzetti. Un pittore preraffaellita, Charles Fairfax Murray, applicato a eseguire copie di opere italiane da inviare a John Ruskin, vide nella chiesa di San Francesco a Siena la Madonna del latte «la più bella tavola di Ambrogio esistente».Fu l’umanità del gesto, il sorridente imbarazzo del bambino, colto sul fatto, a colpirlo, e il grande storico dell’arte Giovanni Battista Cavalcaselle fu il primo a registrare che il pittore «rappresenta al naturale la mezza figura della Madonna col Putto al seno in atto di succhiare, il quale con una mano sulla mammella si volge scherzoso a chi lo guarda». Ed è l’atteggiamento «scherzoso» a contrastare la serietà della Madonna. Lei indossa, come da tradizione, un maphorion blu oltremare, con una bordatura d’oro decorata a motivi geometrici, che copre un velo bianco a sottilissime pieghe, con un orlo dorato. In posizione obliqua, come per sottrarsi, il Bambino evidentemente non si sente a suo agio: s’agita, con i piedi scalcia il braccio della madre con le mani stringe il seno per spremerne il latte, e intanto volge lo sguardo, quasi sospettoso. E la madre deve tenerlo ben fermo, per trattenerlo mentre agita le piccole gambe.

Nel dipingere la sua «Virgo lactans», verso il 1325, Ambrogio aveva ripreso la tradizione bizantina della Vergine Galaktotrophousa, con il risultato di esprimere la sacralità di un atto umanissimo per se stesso sacro. Michael Mallory aveva intuito che, con la sua Madonna del latte, Ambrogio Lorenzetti «ha fatto a meno di quasi tutti i dispositivi simbolici e ha concepito l’immagine esclusivamente in termini di gesti e azioni umane. La Vergine, che guarda teneramente al suo figlio, diventa in questo dipinto l’incarnazione dalla maternità, sia umana che divina, mentre il Bambino, che scalcia e si dimena, afferma l’elemento umano della doppia natura di Cristo». Niente è più sacro dell’umano.Agli scettici che temono l’umanità della nostra religione, quella stessa su cui essa si fonda, vorrei rammentare i versi di Pier Paolo Pasolini, indirizzati a lei che l’ha generato nella sua Supplica a mia madre, una poesia del 1962: «È difficile dire con parole di figlio / ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. / Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, / ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. / Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: / è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. / Sei insostituibile. Per questo è dannata / alla solitudine la vita che mi hai data. / E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame / d’amore, dell’amore di corpi senza anima. / Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu / sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: / ho passato l’infanzia schiavo di questo senso / alto, irrimediabile, di un impegno immenso. / Era l’unico modo per sentire la vita, / l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. / Sopravviviamo: ed è la confusione / di una vita rinata fuori dalla ragione. / Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. / Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…».

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