Nino D'Angelo
Pino Polesi
Lifestyle

Nino D'Angelo: «Sono rimasto uno scugnizzo»

Da cantante di matrimoni ai successi internazionali, l’artista partenopeo ha vissuto molte vite, che ora racconta in un libro e in un disco. Gli esordi difficili, il caschetto d’oro e il pop napoletano, il culto per la famiglia, la depressione. A Panorama confessa: «Sono sempre rimasto fedele a mia moglie Annamaria. E a Napoli».

Nino D’Angelo si sposò di mercoledì. Sua moglie gli disse che nessuno sarebbe venuto. Ma lui non aveva i soldi per i fiori così chiese al prete se poteva accodarsi a un matrimonio più sfarzoso e usare i loro addobbi. «Dovevo sempre inventarmi qualcosa. Ero uno scugnizzo, che significa uno che sa vivere, che affronta tutto». L’ultimo degli scugnizzi, il cantante che meglio ha raccontato la Napoli sottoproletaria ha scritto un libro commovente: Il poeta che non sa parlare (Baldini+Castoldi) ed è appena uscito il suo disco con lo stesso titolo. È la sua vita, ma anche la storia di una città, di un grande talento che ha iniziato cantando ai matrimoni con un vestito liso di gabardine verde. «Perché i talenti vengono dal dolore, dalla strada».

Com’era la strada dove è cresciuto?

Sono nato a San Pietro a Patierno, periferia che costeggia l’aeroporto di Capodichino. Lì nulla è cambiato da quando ero piccolo. Così come il mondo, che ha investito sui computer, ma non su quella gente. C’è ancora chi vive per sopravvivere.

Lei come viveva?

Ero figlio di tutto il palazzo. La vera ricchezza era la comunità. C’era un grande cortile, su cui si affacciavano le case, dove giocavo con i miei amici. Guardavamo la tv tutti insieme una volta alla settimana da una signora che ci faceva pagare poche lire. Il film preferito era Rin Tin Tin o i western, per noi «’e film de’ sceriffe». Ho sempre pensato che anche la povertà ha una sua ricchezza.

Perché veniva chiamato «’o quartiere de scarpare»?

Erano calzolai, facevano le scarpe dei militari. Erano tutti uguali e anche noi figli ci assomigliavamo.

Tra quei figli di calzolai lei è l’unico che è emerso?

Purtroppo sì. Ci vuole talento, passione e anche fortuna. Quando passa il treno bisogna prenderlo al volo. Poi si può sempre scendere. Non passa mai due volte, ti devi far trovare pronto. Io salii, ma mi chiesero il biglietto. E dovetti scendere.

A cosa si riferisce?

Per registrare il primo disco tutta la famiglia fece una colletta. Servivano 500 mila lire. Li portai all’impresario. Ma nella notte morì, con i miei soldi in tasca. Sembra una commedia di Eduardo.

È vero che dovette ripiegare su un’usuraia?

Mi aiutarono mio suocero e mammà, che se li era fatti prestare da una strozzina. A casa organizzò una specie di fabbrichetta: incollavamo le copertine dei 45 giri. Per risparmiare faceva la colla con la farina.

Come era sua madre?

Per me era tutto, sono stato un mammone. Era la donna delle litigate, una montagna da scalare. La sentivo ogni giorno, più di mia moglie. Pretendeva di stare sempre al primo posto. L’amavo troppo. Alla sua morte, aveva 58 anni, sono scivolato in una forte depressione. Ci sono voluti quattro anni di analisi per uscirne.

E suo padre?

Il più grande uomo che abbia conosciuto. Lavorava tantissimo. Quando gli dissi che volevo fare il cantante, rispose che avrei dovuto mantenermi, non poteva aiutarmi. Fu così che cominciai a cantare ai matrimoni, mentre facevo il posteggiatore. Avevo 14 anni, avevo appena finito la terza media.

E lei che padre è stato?

Un papà assente. Forse perché ebbi i figli nel momento del successo. Mia moglie invece è stata una madre eccezionale. Lei è l’unico amore della mia vita, 42 anni insieme. Oggi i sentimenti hanno perso valore, quello che conta è solo l’apparire. Certo che a parlare così mi pare di essere un centenario.

Si sente vecchio?

Mi sento prigioniero di una vita provvisoria. Sono due anni che per questo virus non viviamo più. Prima stavamo talmente bene che non ce ne accorgevamo neanche. Oggi non abbiamo nessuna certezza. Questa non è più vita.

Come ha vissuto la pandemia?

Ho avuto molta paura all’inizio. Ma io credo nella scienza. L’unica cosa che ci può salvare è il vaccino. Appena mi chiamano vado a fare la terza dose.

Tornando alle certezze, quando decise di farsi il mitico caschetto biondo?

Ero stato male e sembrava che forse non avrei più potuto cantare. Iniziai a pensare che volevo cambiare, essere un’altra cosa. Addio alla sceneggiata, anche se Mario Merola mi aveva designato come suo erede. Decisi di farmi crescere i capelli, ossigenarli. In quegli anni la Carrà, la Caselli e io eravamo i caschetti più popolari d’Italia.

E poi?

Dopo dieci anni il caschetto stava diventando più importante di quello che facevo. Mi sentivo stretto in quel personaggio. Anche questo è stato uno dei motivi della depressione. Quando ne uscii volevo un’altra vita. Così ho cominciato a scrivere canzoni dai risvolti sociali, che raccontavano il mio mondo, dove la pioggia non cadeva mai sugli ombrelli, ma sulle teste di ragazzini, nati già grandi.

Furono gli anni di Bella, dichiarazione d’amore alla sua città?

La scrissi quando nel 2004 il Napoli andò in serie C e io ero distrutto. Per me questa città è una mamma, la mia lingua. È anche la disoccupazione e la camorra. È questo ed è quello. È una donna senza braccia che sa tenerti stretto, che si fa amare per forza. È lei che ti cerca e io ne ho bisogno. È l’origine, la radice, è «tutte ‘e cose». Napoli è la mia vita.

A un certo punto però fu costretto a partire, perché?

Mia moglie mi disse di scegliere tra la città o lei. Avevano sparato contro casa mia, una pallottola aveva sfiorato la culla di mio figlio. La camorra voleva i soldi. Era più di quarant’anni fa, nessuno ti difendeva. E poi la famiglia è sempre venuta per prima. Anche dei miei desideri. Così ci trasferimmo a Roma.

Quali sono i suoi desideri?

Ho capito che desiderare è la chiave per vivere. Se non desideri più, sei morto.

La parte più commovente del suo racconto è quando vendeva i gelati ai binari dei treni. Come ci capitò?

Papà lavorava al bar della Stazione Centrale. Faceva lo sguattero, lavava i piatti. D’estate prendevano dei ragazzi a vendere i gelati. Sapevano che lui aveva bisogno e mi chiamarono. Salivo sul carrettino e cantavo. Ero mingherlino, ma ero quello che vendeva di più.

Quanti anni aveva?

Quindici, lo feci per due estati. Alla stazione c’era un mondo che viveva, morendo. Quelli non erano treni di turisti, ma di uomini con valigie cariche di dolore, che emigravano al Nord. Un giorno incontrai Alberto Lupo, che veniva a registrare Senza Rete. Mi regalò un cappotto.

Anche per lei Maradona fu un dio?

È stato un genio, il più grande giocatore di tutti i tempi, il simbolo di noi poveri. Il re del riscatto mondiale. L’ho conosciuto bene, prima della droga era una persona dolcissima e rispettosa.

Con Miles Davis invece come andò?

Non l’ho mai incontrato, ma lui apprezzava la mia musica e lo dichiarò pubblicamente. La cosa divertente è che quando il mio bassista mi disse: «Hai letto di Davis», pensavo si riferisse a un nuovo giocatore comprato dal Napoli.

Oggi si sente più Nino o Gaetano?

Quando non sono sul palco sono Gaetano, quello che conosce solo la mia famiglia. Dal camerino in poi divento Nino, l’artista amato dalla gente, anche un po’ narciso. Ma alla fine sono sempre uno del popolo, non mi sono mai imborghesito. Sono rimasto lo scugnizzo di San Pietro a Patierno.

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Terry Marocco