Non chiamateci quarantenni
Smettiamola col cliché di una generazione costretta a stare in panchina. Avere questa età significa essere adulti, lavorare e sperare, malgrado i tempi di crisi. E lo raccontano i comici meglio di tanta sociologia
Qualcuno dice che i quarantenni sono un’invenzione giornalistica. Ma quella nelle generazioni è una fede: o ce l’hai o non ce l’hai. Se ce l’hai, etichette e categorie vengono fuori in scioltezza come se il riferimento cronologico costituisse di per sé arruolamento immediato. Parliamo dell’esercito dei quarantenni, ammesso che esista: secondo le ritrite categorie di cui sopra, sarebbero la generazione costretta a stare in panchina, a guardare i padri e i nonni che giocano o gestiscono le giocate dei coetanei e non vogliono lasciare il campo nemmeno dopo ripetuti tentativi di invasione, nel bene e nel male.
Lo afferma addirittura in copertina Andrea Scanzi nel suo Non è tempo per noi (Rizzoli). Il titolo fa il verso a Ligabue, che in quanto rocker usa il noi come accumulo democratico-demografico (vedi alla voce Siamo solo noi: i rocker puntano all’eternità del testo, non al generazionalismo); noi uguale "dai 3 ai novant’anni e oltre". Quindi viene da rispondere: noi chi? Perché qui di cumulativo-democratico c’è poco o nulla e c’è, invece, la vasta gamma di emozioni che va dall’affiliazione alla piaggeria.
Noi quarantenni saremmo, secondo Scanzi, quelli della cintura del Charro e delle Reebok, del Commodore 64 e del Game Boy, della "dittatura sonor-proletaria della Sip", di Footloose e di Chernobyl? Prima di tutto alla base di ogni ecumenismo dei ricordi c’è una presunzione estetica, la stessa che portò tanta fortuna a Fabio Fazio 15 anni fa: "Anima mia nacque per gioco" ama ricordare "in un ristorante di Roma in cui pranzai con Claudio (Baglioni, ndr). Il gioco consisteva nel ricordare i nomi degli otto figli di Tom Bradford. I nostri vicini di tavolo si appassionarono, facendoci intuire che poteva funzionare".
E invece là fuori è pieno di quarantenni a cui la cintura El Charro faceva orrore già un quarto di secolo fa, figuriamoci oggi averne nostalgia, e a cui dei nomi dei figli dei Bradford importa meno ancora che di quelli dei sette nani. Là fuori pullula di detrattori dell’ambrismo (dall’icona di culto Ambra Angiolini), dei giornalisti 2.0 (da cui Adinolfismo, Telesismo, Parenzismo...), del Coronismo, del Volismo (ormai il giochino è chiaro). Che poi sarebbero tutti ismi dell’avere quarant’anni oggi, quindi dell’essere sempre stati senza destino (e "senza un libro fondante": ma che cos’è un libro fondante? Una via di mezzo tra il Libretto rosso e Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta?), insieme ad altri alibi collaterali quali l’essere diversamente adulti, postesistenzialisti, filosofi del quasi, vulnerabili al vento della retorica, ipnotizzabili dalla supercazzola del cambiamento. Insomma, rottamabili. Ma non è che qui si confonde l’avere quarant’anni con l’essere di sinistra?
I detrattori di cui sopra invece garantiscono che, se i quarant’anni devono segnare qualcosa, generazionalmente parlando, allora ecco: segnano l’ultimo confine possibile verso l’età adulta, l’ultima chiamata a cambiare vita (meno male che ci sono i rocker che a sessant’anni i Cambiamenti li cantano lo stesso) prima di sentirsi troppo vecchi e dunque anche il momento in cui non ci si può più nascondere dietro presunte tare generazionali. Chi sono i quarantenni oggi? Di sicuro non è gente che sta in panchina: giocano anche troppo. Sono quelli in prima linea in aziende sottostrutturate per 12 ore al giorno. Fanno tre, quattro, a volte anche cinque lavori. Sono per la prima volta nella storia italiana, alla loro età, veri padri e compagni completi, madri consapevoli e donne che lavorano. Inventano vite parallele pur di far credere ai figli che ce la possono fare, sia loro sia i figli, a guadagnare un futuro per sempre e nonostante tutto. Lo racconta Checco Zalone in Sole a catinelle, che mostra la vita di un padre che senz’altro appartiene a una generazione di quarantenni.
Non è giocarsela, questo? Il fatto che non ci abbiano regalato il futuro e che per questo non siamo diventati rivoluzionari o incendiari, ma abbiamo continuato a lavorare e sperare, vuol dire che siamo una generazione di sfigati o peggio un ammasso di decerebrati pronti a cadere in deliquio al solo risentire la colonna sonora di Mazinga Z?
Comunque Zalone non c’è, nell’indice onomastico dei quarantenni radical-metro- sexual cui sembra riferirsi il libro di Scanzi. Ci sono invece, al termine del libro, "i 10 buoni propositi per andare oltre il pareggio", ovvero "per sollevare il culo da quella panchina, o anche solo per sentirci un po’ migliori". Siate cazzari, folli, nervosi, sognatori, perdenti, agonizzanti, coraggiosi (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti per noi, i quarantenni), consumatori consapevoli, genitori di figli multipli, rottamandi di voi stessi. Basta leggerli e non ci si sente già più quarantenni, ma vecchi. E anche un filo rimbambiti.