Patrizio Bertelli: "Con me la cultura è di moda"
In Corea una colossale struttura della Fondazione Prada ha fatto apprezzare l'Italia e il made in Italy. Una strada da seguire, dice Patrizio Bertelli
Persino in aeroporto, a Seul, si fatica a comunicare in inglese. I tassisti, a quanto pare, non recepiscono nemmeno il nome dell'albergo, benché sia quello di una delle catene più note del mondo. Una sola parola, fra quelle usate, viene capita. Ed è italiana: Prada. Il messaggio è chiaro: qui la casa italiana ha lasciato il segno. E non solo con le borse. Si è insinuata nel vissuto coreano attraverso il più sottile veicolo della cultura contemporanea.
Il grosso e curioso colosso mobile chiamato Transformer, inaugurato qui lo scorso aprile dalla Fondazione Prada per contenere mostre ed eventi, ha avuto più successo del previsto, tanto da essere incluso fra le tappe del programma del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante la sua ultima visita in Oriente. Incoraggiante consacrazione per Patrizio Bertelli, presidente della fondazione e amministratore delegato del gruppo, che non smette di investire nella cultura.
L'aria non è delle migliori: insieme a quello della moda, anche il mercato dell'arte soffre la crisi. E' sicuro che valga la pena andare avanti?
Investire, anche solo mentalmente, in cultura contemporanea vuol dire dedicarsi a conoscere il mondo: dal punto di vista estetico, sociologico, politico, ambientale. L'arte aiuta a capire gli elementi che compongono e modificano il quotidiano: entri nella testa dei giovani. Non è poco per chi crea moda, è come avere un sismografo che ti avvisa prima che le cose diventino obsolete. Per essere così irrinunciabile il costoso sismografo darà pure un profitto.
Certamente. Rende dando appeal al marchio. Ma non è un risultato così cercato. Non è che un giorno abbiamo deciso di dover guadagnare con la cultura. Dal 1993, piano piano, abbiamo assecondato una passione, quella mia e di Miuccia per l'arte. Oggi chi pensa a Prada, persino qui a Seul, pensa anche all'esperienza della bella mostra che ha visto, associando l'azienda a una realtà attuale e multifunzionale. La produzione di moda e l'attività della fondazione sono ormai due facce della stessa medaglia.
Non sarà pericoloso, in vista della eventuale quotazione in borsa, legarvi a un mercato tanto imponderabile quale quello dell'arte contemporanea?
Di imponderabile qui c'è poco. Le attività della fondazione oggi fanno parte di un preciso piano di comunicazione, gestito come un tutt'uno con quello del gruppo. I conti sono molto chiari. Detto questo, nelle nostre strategie do poca importanza al consenso altrui.
Sarebbe a dire?
Da sempre siamo un'azienda propositiva, in cerca di nuove strade, non solo estetiche. Il consenso e la prevedibilità sono la negazione della cultura. Non va preteso il consenso, semmai accolto quando arriverà.
Come è stato per Alberto Burri e Lucio Fontana. Si paragona a due artisti?
Voglio dire che all'applauso, alla consacrazione di una collezione, di una strategia o di un'opera, ci puoi arrivare anche dopo. Come è stato per i due artisti, apprezzati cinquant'anni dopo la loro opera. Se tu agisci in cerca di consenso sopprimi la tua libertà espressiva. Miuccia e io non ci siamo mai riusciti, non lo faremo certo ora.
Alla crisi avete risposto con l'apertura, negli ultimi due anni, di 68 negozi nel mondo. Cos'altro c'è nella sua ricetta?
Non ho ricette. Questo è quello che ho fatto io. Qualcuno ha cercato il consenso immediato abbassando i prezzi o cambiando stile. Noi seguiamo le nostre strade, magari inesplorate. Lo dimostra la vicenda del Transformer di Seul: quella struttura temporanea era un punto di domanda anche per noi, però ha dato risultati in termini di visite e di ritorno di immagine molto superiori alle aspettative. L'arrivo del presidente della Repubblica dà ragione al mio ottimismo.
Non è facile, specie per chi lavora nel vostro ambiente, essere tanto positivi...
Non è nemmeno sano proseguire con questo nichilismo mentale che si traduce, nella pratica, in autolesionismo. Sono questi i primi mali dell'Italia. Il nostro è un grande paese, non così scalcinato come a qualcuno piace dire. Banche come Unicredit e Intesa Sanpaolo, per fare un esempio, sono tra le prime cinque d'Europa. Dobbiamo smetterla di farci la guerra e piangerci addosso: affrontiamo i problemi senza l'invidia strutturale del mondo della moda.
Quali sono, secondo lei, i problemi che ha la moda italiana?
Siamo costretti da due necessità: per sopravvivere dobbiamo crescere in dimensioni e internazionalizzarci. Contestualmente è fondamentale che manteniamo una manodopera di superqualità. Per tutto questo servono tanti soldi, ma manca il sostegno. Anche il governo dovrebbe starci più vicino.
E' presidente della fondazione e parla di arte da intenditore: dove ha sviluppato la sua competenza?
Non sono un competente, ma uno che l'arte cerca di capirla da sempre. Sono aretino e da noi, alle elementari, il premio era andare a vedere la pieve. Con l'arte in Toscana ci cresci. Poi, grazie alla passione e all'aiuto di amici come Germano Celant (direttore artistico della Fondazione Prada, ndr), ho imparato qualcosa in più.
Che cosa l'appassiona in particolare?
Una volta seguivo solo la pittura, poi ho imparato a capire le installazioni, ora, anche secondo il mercato, è il ritorno delle tele.
Vanno tenuti d'occhio i cinesi. Ma questo è il territorio di Miuccia.
Vuole dire che lei non mette becco nella selezione degli artisti che decidete di sostenere con la fondazione?
Niente affatto. Miuccia e io condividiamo tutte le scelte in merito ai talenti che decidiamo di coprodurre. Però, in linea di massima, ci siamo divisi gli ambiti: lei è specializzata in arte contemporanea, che è pure più complicata. Io seguo quella moderna e l'architettura. Penso agli architetti come a dei filosofi: me li vado a cercare, a conoscere. Rem Koolhaas (che ha disegnato il Transformer, ndr) l'ho scovato io, 15 anni fa, bussando alla porta di casa sua.
Quali sono i suoi architetti preferiti?
Un genio, anche lui un po' incompreso, è Oscar Niemeyer. La sua Brasilia, immersa nella natura, è quasi fantascientifica. Potrebbe essere un modello per i nuovi centri dell'Estremo Oriente. I prossimi progettisti da tenere sott'occhio, poi, saranno quelli che lavoreranno alla nuova Las Vegas: finita l'epoca della cartapesta scenografica, vogliono rendere quella città moderna e reale.
Gira il mondo in lungo e in largo. Perché la decisione di collocare il Transformer proprio a Seul, in Corea?
L'Asia è il futuro. E Seul, molto vivace in ambito artistico, poteva essere un piccolo test per entrare e conoscere quel continente. Tuttavia, per me non c'è più una piattaforma privilegiata su cui puntare. Oggi che è tutto accessibile, il mondo va visto per intero.
Quali sono i prossimi progetti della fondazione?
Aspettando la nuova sede di Milano, stiamo pensando al futuro del Transformer. A breve verrà smontato: stiamo valutando di portarlo in Italia, forse a Roma, per installarlo vicino a un monumento antico come è stato qui a Seul. Chiude un museo, resta un negozio. Parte arte, arriva moda.
Cosa rimane di Prada in Corea? Cosa porta Prada nel mondo?
Qui come altrove sentiamo l'orgoglio e la responsabilità di portare l'Italia intera. Sono felice di mostrare che non siamo così malmessi come qualcuno racconta. Anche se il momento è difficile, l'Italia sa e deve ancora esprimere l'eccellenza del suo pensiero.