Prometheus, l'origine dell'umanità secondo Ridley Scott
Di fronte al kolossal del regista britannico tra fascino e insoddisfazione. Brilla la scenografia visiva ma i personaggi sanno d'incompiuto. Noomi Rapace non è Sigourney Weaver
Con un ritardo di mesi rispetto al lancio internazionale (inizio giugno), finalmente arriva in Italia Prometheus di Ridley Scott (dal 14 settembre). L'attesa ansiosa è più che giustificata visto che il regista britannico - che poche settimane fa ha perso il fratello - ha creato capolavori fantascientifici come Alien (1979) e Blade Runner (1982) e da ben tre decenni manca al genere (seppur abbia infuso tutto il suo talento versatile in altre pietre miliari del cinema quali Thelma & Louise o Il gladiatore).
Le critiche più o meno positive da oltreoceano ci sono già arrivate da un po', ma mi sforzo di non lasciarmi influenzare.
Riprendendo la mitologia già impiantata in Alien, Scott crea una sorta di prequel che prequel non è, per sua stessa affermazione . E ci porta in un universo nuovo - anche se i riferimenti ad Alien sono diversi - e soprattutto a domande di filosofica altezza: chi ci ha creati e perché? La risoluzione avrebbe il valore di una emozionante epifania.
Prometeo è il titano che ha sfidato Zeus per dare il fuoco divino agli uomini, protettore del genere umano. Non aspettatevi però di vedere nel kolossal di Scott (costato 130 milioni di dollari) un titano incatenato e tormentato da un'aquila. Prometeo è solo il simbolo di una nuova sfida, degli uomini agli dei. E Prometheus è il nome dell'astronove incaricata della missione.
Anno 2089, circa trent'anni prima dell'ambientazione di Alien. Sull'isola di Skye, in Scozia, due giovani scienziati, Shaw (Noomi Rapace ) e Holloway (Logan Marshall-Green), scoprono degli indizi nei pittogrammi delle caverne creati dalle civiltà antiche: dallo spazio è stato mandato un invito.
Anno 2093. I due sono riusciti a trovare nella corporation dell'anziano Peter Weyland (un irriconoscibile Guy Pearce sotto centimetri di silicone) la ricca finanziatrice della loro missione scientifica alla ricerca delle nostre origini. L'astronave Prometheus, gestita dall'androide David (Michael Fassbender ), si dirige verso il pianeta da cui è giunto il presunto invito. Il 21 dicembre, dopo due anni di ibernazione necessaria per superare il viaggio, l'equipaggio viene svegliato. Oltre a Shaw e Holloway ci sono il rassicurante capitano Janek (Idris Elba), un manipolo di uomini arruolati senza la consapevolezza del progetto, e l'algida guida Meredith Vickers (Charlize Theron ), più fredda e disumana di un androide.
Innegabile è il fascino della loro missione: trovare un perché al nostro esistere, chiedendolo direttamente ai nostri "inventori". Come sono interessanti gli sviluppi drammatici e cupi che Scott dà alle non risposte ("per creare bisogna distruggere").
Però a vacillare è lo script, che lascia tanti dubbi irrisolti e costruisce personaggi dallo scarso approfodimento psicologico. Rimane spesso nebulosa la volontà che muove i vari Shaw, Holloway, Vickers. Potrà essere materiale lasciato aperto per un sequel? Probabile, ma ciò non basta ad appagare oggi.
Noomi Rapace, attrice svedese ultimamente molto amata da Hollywood e apprezzabile soprattutto in sequenze di tensione, non regge affatto il paragone con il carisma di Sigourney Weaver di Alien e successori. A volte risulta addirittura fastidiosa come eroina tutt'altro che intrigante. Com'è orticante il sottotesto cattolico inserito (lo sceneggiatore è il Damon Lindelof della serie tv Lost).
Brilla invece, una volta di più, il talento di Fassbender, l'unico personaggio stuzzicante e, guarda caso, non umano ma androide. Il suo super ossigenato David è giocoso (adora il film Lawrence d'Arabia di David Lean e ne cita le battute) quanto ambiguo e pericoloso, ironico e superbamente intelligente come imprudente e sprezzante verso il genere umano che l'ha creato.
Ma soprattutto, e questo a Ridley Scott c'è da riconoscerlo, brillano la costruzione visiva, meravigliosa e imponente, e gli effetti speciali. Stupendo - e forse da solo vale tutta la visione del film - è l'incipit, l'origine dell'umanità (che per associazione di emozioni mi evoca l'incipit di Melancholia di Lars von Trier e alcune scene di The tree of Life di Terrence Malick, anche lì, guarda caso, interpretazioni di fine e di inizio mondo). Monti, corsi d'acqua di una lucentezza estrema, nubi basse in movimento, il turbinio di una cascata, coi colori esaltati che ricordano le immagini scattate con la tecnica HDR. Il 3D, in questa esplorazione iniziale, ha almeno il suo senso.