Roland Garros, 40 anni fa la vittoria di Panatta: 'Mi ha cambiato la vita'
L'ex racchetta d'oro del tennis azzurro ricorda la straordinaria doppietta Roma-Parigi del 1976
È il 14 giugno 1976: Adriano Panatta vince il Roland Garros, battendo in finale l’americano Harold Solomon – aveva battuto, nei quarti, la leggenda Bjorn Borg – e completa una storica doppietta con gli Internazionali d’Italia, dove solo qualche settimana prima aveva trionfato contro Guillermo Vilas.
“Vincere a Roma era un fatto di cuore, soprattutto per me che sono romano – dice il 65enne Adriano, che abbiamo raggiunto a Sanremo in occasione della chiusura dell’evento Banca Generali Un Campione per Amico, iniziativa che da 7 anni avvicina allo sport a decine di migliaia di bambini con un tour nelle principali città italiane -. E pensare che a quel tempo gli Internazionali erano considerati il quinto slam. Eppure, nemmeno allora, si potevano paragonare al Roland Garros”.
Cosa ha significato, per Adriano Panatta, vincere a Parigi?
‘Ad esempio il fatto che, a 40 anni di distanza, siate ancora qui a intervistarmi (ride, nda). La vittoria all’Open di Francia ha cambiato la mia vita e la mia carriera: la classifica, ovvio, ma soprattutto il rispetto dell’ambiente e dei giocatori, che da allora quando entravano in campo hanno iniziato a guardarmi in modo diverso..”.
E cosa è cambiato rispetto al Roland Garros di 40 anni fa?
“Il prestigio è lo stesso, ma è evidente che oggi sia tutto ancora più amplificato. Forse le persone sottovalutano l’impatto di certi strumenti di comunicazione, che permettono a tanti giocatori di mettersi in mostra pur senza vincere un granché. A quel tempo avevamo tre o quattro occasioni per guadagnare la ribalta. Parigi era una di queste”.
E nel gioco, cosa è cambiato?
“Come in tutti gli sport è cambiata la velocità di esecuzione. A quei tempi ragionavamo molto di più su tattica e strategie, forse perché avevamo anche più tempo per pensare (ride, nda). In campo oggi c’è molta più forza fisica, si trovano meno alternative ai colpi fondamentali, e di conseguenza molti match risultano meno affascinanti..”.
Chi, oggi, sa ancora giocare ancora in quel modo?
“Come Federer, nessuno. Stiamo parlando di un’altra categoria”.
Quanto peserà la sua assenza, la prima dopo 65 partecipazioni consecutive agli slam?
“Ci mancherà il suo tocco, la sua eleganza. Purtroppo Roger ha sbagliato la programmazione, venendo a giocare a Roma. Speriamo di rivederlo in campo ancora per un po’: un giocatore come lui è più unico che raro”.
E gli altri?
“Beh, sia chiaro, non voglio dire che Djokovic e Nadal non sappiano giocare! Ci faranno divertire anche loro, forse un pochino meno. Non sono sorpreso dalla vittoria di Murray a Roma perché lo scozzese è al massimo a 1-2 centimetri da Djokovic: se il serbo non gioca al 100% ora Murray sa che lo può battere. Mi piacciono molto un paio di giovani come Kyrgios e Zverev. Speriamo mettano un po’ di pepe sul torneo regalandoci qualche sorpresa”.
Domani sarai di nuovo insieme ai giovani delle scuole per l’ultima tappa di Banca Generali Un Campione per Amico. Cosa dirai a questi ragazzi?
“A loro bisogna dire poco: basta fargli fare sport. Quello che cerchiamo di comunicargli non è la smania del risultato ma l’allegria e la spensieratezza che c’è nell’attività sportiva. Questa è sia la pratica (i bambini delle scuole elementari e medie sono stati fatti giocare in vere e proprie palestre ‘a cielo aperto’, costruite in mezzo alle piazze, ndr) che lo scopo: lo sport come divertimento”.
In Italia manca un certo tipo di cultura sportiva?
“Ancora prima manca fare attività motoria nelle scuole. Finché non capiamo che già alle elementari l’ora di educazione fisica deve essere considerata al pari delle altre materie è difficile pensare a qualsiasi tipo di cultura sportiva”.
Si può coltivare la passione per lo sport senza la pressione del risultato?
“Troppo spesso sembra di no, ma è solo un malcostume tipicamente italiano. I bambini devono fare sport: su 100 mila forse uno potrà diventare un Federer o un Djokovic. L’importante è iniziare a pensare che l’attività sportiva di un bambino, anche se non ha un particolare talento per quella disciplina, sia la normalità. E non il contrario”.