Ricorrere all’«aspirinetta» dopo una certa età per prevenire infarti o ictus serve a poco, mentre aumenta il rischio di emorragie intestinali. Colesterolo o pressione alta non ne giustificano l’uso, dicono nuovi studi americani. Per proteggere il cuore, meglio fare altro…
Cardioaspirina, come nome, suona benissimo. Trasmette l’idea di una protezione costante ed efficace nei confronti del nostro cuore. Anche «aspirinetta» (come viene soprannominata) ispira fiducia e zero preoccupazioni, un po’ come la vitamina C o un simpatico integratore. I medici la prescrivono di frequente ai loro pazienti considerati a rischio cardiovascolare perché, questo il razionale scientifico, l’acido acetilsalicilico funziona come antiaggregante piastrinico, prevenendo infarto e ictus: 100 o 75 milligrammi ogni giorno e avanti tranquilli.
Ecco, no. Non proprio. Linee guida americane appena rilasciate dalla United States Preventive Services Task Force avvertono che nella prevenzione primaria (ossia per chi non ha mai avuto infarti o ictus pregressi) la cardioaspirina fa più male che bene. In altre parole, i rischi, soprattutto sanguinamenti ed emorragie interne, superano i benefici. E questo vale in particolare dai 60 anni in su. Negli Usa, riporta il New York Times, un terzo degli over 40 prende l’aspirinetta, e sopra i 75 anni l’uso sale al 45 per cento. Cifre molto alte, e già nel 2019 due enti come l’American College of Cardiology e l’American Heart Association esprimevano cautela in tal senso. Ora la conclusioni vengono da uno studio che ha preso in esame tre trial clinici su oltre 47 mila pazienti sopra i 60 anni. Risultato: i danni della cardioaspirina quotidiana superano nettamente i vantaggi. Anche in Italia, sia pure in misura minore (negli Stati Uniti il consumo di pillole e pasticche spesso prende derive pericolose, vedi la crisi di farmaci oppiacei), l’utilizzo della cardioaspirina come prevenzione primaria è piuttosto comune, dopo una certa età.
«C’è stato un eccesso di prescrizione in pazienti che avevano solo colesterolo alto o ipertensione» riflette Salvatore Di Somma, cardiologo e professore associato di Medicina Interna all’Università La Sapienza di Roma. «Ma da un paio d’anni alcuni lavori importanti riportati ora su Jama, il Journal of the American Medical Association, non dimostravano in questi casi alcuna evidenza di efficacia, addirittura ne sconsigliavano l’uso sopra i 60 anni perché il rischio di sanguinamento intestinale, o anche cerebrali in casi più rari, era significativo mentre non era stabilito il beneficio. E il pericolo sale con l’età, perché gli anziani sono più suscettibili alle emorragie interne. Noi esperti queste cose le sappiamo. E comunque penso che fra breve ci sarà una posizione ufficiale delle Associazioni cardiologhe italiane con queste nuove indicazioni».
La domanda è: ma il medico di famiglia si legge Jama o gli studi d’Oltreoceano? Non tutti – o forse pochi – sono davvero aggiornati. «Sulla base di queste nuove evidenze scientitiche Il 30 per cento delle attuali prescrizioni di cardioaspirina potrebbe e dovrebbe probabilmente essere eliminato» conclude Di Somma. È d’accordo Daniele Andreini, professore di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università di Milano. «Le linee guida europee sono più restrittive e prendono le distanze da un uso eccessivo della miniaspirina. Non è che, in sé, non prevenga gli eventi cardiovascolari, ma la riduzione del rischio, molto bassa peraltro nella prevenzione primaria, è controbilanciata dal pericolo di emorragie: che in genere sono benigne, ma l’1 per cento sono gravi e quasi sempre negli ultra 70enni». Gravi significa il ricovero in ospedale o trasfusioni.
Discorso diverso in chi in passato ha già avuto attacchi di cuore, Tia (attacco ischemico transitorio) o ictus. Per loro, la cardioaspirina è un salvavita. E gli eventi cardiovascolari in famiglia, sono un fattore di rischio vero o trascurabile? «La storia familiare è importante, ma non va generalizzata» risponde Andreini. «Aver avuto un parente anche di primo grado con un evento coronarico in tarda età conta poco. Conta se il parente di primo grado, quindi non il nonno, lo zio o il cugino, ha avuto un infarto o un ictus sotto i 50 anni se maschio, sotto i 65 se donna. La medicina di precisione, basata sulle evidenze scientifiche, va personalizzata: l’unica categoria che merita la mini aspirina sono i pazienti a elevato rischio cardiovascolare e di aterosclerosi. In questi casi l’antiaggregante piastrinico riduce il pericolo di trombosi e salva il cuore, perché la placca da sola non basta a scatenare un infarto o un ictus, deve complicarsi con la trombosi».
Ma chi ha il colesterolo «cattivo» (l’Ldl) elevato o soffre di pressione alta tanto tranquillo non sta. E sapere che la miniaspirina che prendeva fino al giorno prima è in realtà controindicata se non pericolosa non lo fa certo stare meglio. La raccomandazione degli esperti è piuttosto quella di effettuare un controllo puntuale e preciso del colesterolo Ldl, quello che provoca le placche aterosclerotiche a carotidi e coronarie, monitorare la pressione, curare il profilo glicemico, eliminare il fumo, fare attività fisica.
Se tutto ciò non basta, e il colesterolo è sempre sopra la soglia di attenzione, meglio dell’aspirinetta funzionano le statine. «Sono effettivamente il cardine appropriato sia per la prevenzione primaria che per quella secondaria» spiega Andreini. «Anche se nate per abbassare l’Ldl, stabilizzano la placca in modo molto efficace» . Oggi poi, per chi non le tollera (il 10 per cento dei casi) o quando non sono sufficienti, esistono terapie alternative, come gli anticorpi monoclonali inibitori della proteina Pcsk9, o più di recente, farmaci basati sulla tecnologia del nuovo millennio, quella a Rna. In questo caso, per salvaguardare il cuore basta un’iniezione ogni sei mesi.