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Quando l’Alzheimer è troppo dolce

Quando l’Alzheimer è troppo dolce

Un eccesso di glucosio nel sangue è un fattore di rischio per i neuroni. Tanto che oggi si parla di «diabete cerebrale». Ma questo può aiutare nella prevenzione e nella cura.


Fin da bambini ci hanno ripetuto che troppi zuccheri fanno male. Ma nessuno ci aveva mai detto che causano danni anche al nostro cervello. Sappiamo che il diabete di tipo 1 e 2 è una malattia cronica caratterizzata da un eccesso di glucosio nel sangue, l’iperglicemia, che può essere causata da un’insufficiente produzione di insulina o da una sua inadeguata azione. Questo ormone però, oltre a permettere alle cellule di utilizzare gli zuccheri nel sangue, gioca un ruolo chiave nei processi cognitivi. Le ultime ricerche dimostrano che l’insulino-resistenza e la sua conseguente carenza sono un fattore di rischio più rilevanti per malattie neurodegenerative.

Di recente infatti è stata identificata una nuova forma di diabete, il diabete di tipo 3 o cerebrale: una sindrome metabolica in cui la progressiva resistenza insulinica contribuisce allo sviluppo delle alterazioni tipiche dell’Alzheimer in quanto riduce l’apporto del glucosio, la principale fonte di energia del cervello. E quando l’apporto diminuisce, la funzione cerebrale si deteriora rapidamente. «I disturbi cognitivi sono più frequente nei diabetici e sono aumentati negli ultimi decenni. Il miglioramento delle cure per questa malattia ha contribuito a rendere i pazienti più longevi ma così facendo ha incrementato il loro rischio» dice Gabriele Riccardi, presidente onorario della Società italiana di Diabetologia, e direttore dell’Unità complessa di Diabetologia all’Azienda ospedaliera universitaria. Studi nell’animale e nell’uomo dimostrano che «la comparsa di un deficit insulinico favorisce l’accumulo di proteine neurotossiche, come la beta amiloide e la proteina tau, e induce una neuroinfiammazione, con la conseguente distruzione delle sinapsi, la degenerazione dei neuroni, l’atrofia dell’encefalo e la comparsa della progressiva compromissione cognitiva che porta alla demenza» spiega Elio Scarpini, professore di Neurologia presso il centro Dino Ferrari dell’Università degli studi di Milano-Ospedale Maggiore Policlinico. Se le nostre cellule cerebrali non riescono più a utilizzare in modo appropriato l’insulina, ecco che lo stress metabolico, finisce per alterare la stessa cellula, fino a raggiungere una soglia critica tale da dare avvio alla degenerazione dei neuroni.

Secondo Alberto Albanese, docente di Neurologia e responsabile della Neurologia IRCCS Istituto clinico Humanitas, «alcuni neuroni sono più esposti di altri a una certa sofferenza metabolica e, in certe condizioni, la degenerazione potrebbe diffondersi per continuità. In questo scenario, si è aggiunta anche la possibilità che il diabete svolga un ruolo più importante di quello che si pensava in passato. L’esordio della demenza può essere preceduto dal diabete e c’è una fase preclinica con deficit cognitivi lievi che si ritiene duri tanti anni».

Uno studio pubblicato sull’International Journal of Molecular Science dimostra che «il metabolismo del glucosio nel cervello si riduce 10 anni prima della comparsa dei sintomi della demenza. E molti risultati indicano che i farmaci che migliorano la resistenza all’insulina possono ridurre i cambiamenti patologici nel cervello con Alzheimer. Pertanto, il mantenimento della sensibilità all’insulina può inibire l’insorgenza e la progressione della malattia». E a confermarlo è un’altra indagine appena apparsa su Frontiers of endocrinology che porta la firma, tra gli altri, di Shan Zhang del Guang’ anmen Hospital, China academy of chinese Medical sciences di Pechino. Queste ricerche, svolte in tutto il mondo, sono importanti perché mostrano i dati di pazienti affetti da demenza e quando hanno avuto le prime alterazioni. «La visione è però retrospettiva» aggiunge Alberto Albanese. «Che è completamente diverso dal predire a un malato di diabete che in futuro sarà colpito demenza. Oggi non siamo in grado di fare una prognosi a chi ha questi disturbi. Ma, grazie agli ultimi studi, possiamo indentificare popolazioni più a rischio, diagnosticare in fase molto iniziale la malattia e sottoporre i pazienti a idonee terapie, in particolare nelle fasi precoci».

All’inizio, il meccanismo di accumulo di proteine tossiche è silente. Quando si presentano i primi sintomi, i medici hanno tre tipologie di cure: cercano di mettere il paziente in condizioni metaboliche ideali, curando diabete, obesità, ipertensione; usano terapie per contrastare i sintomi della malattia, per esempio farmaci che migliorano la memoria e la concentrazione. Infine, la terapia eziologica: sperimentazioni in corso con anticorpi monoclonali (come l’Aducanumab, che avremo in Italia il prossimo anno), vanno ad attaccare l’accumulo delle proteine tossiche nelle fasi iniziali della malattia. Per tale motivo disporre di una diagnosi precoce è fondamentale. Gabriele Riccardi, nella sua lunga esperienza di diabetologo, suggerisce «di dare particolare attenzione, tra i possibili fattori di rischio per problemi cognitivi, alle oscillazioni glicemiche: queste sottopongono l’encefalo ad ampie fluttuazioni del flusso di glucosio alle cellule cerebrali, con danni anatomici e funzionali dovuti sia alla penuria che all’eccesso di zuccheri». Oggi si tende a considerare i disturbi cognitivi nel contesto delle complicanze croniche del diabete e, pertanto, «occorre sospettare la loro presenza nei diabetici che hanno una lunga durata della malattia e presentano anche alterazioni dei piccoli vasi a livello della retina, del rene e dei nervi periferici» precisa Riccardi.

Il diabete rappresenta, infatti, anche un potenziale pericolo in senso vascolare: «Può determinare, specie se associato a fumo, ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, obesità, una progressiva sofferenza ischemica cronica del tessuto cerebrale, che contribuisce al decadimento delle funzioni cognitive» avverte Elio Scarpini. Non a caso una delle nuove ipotesi terapeutiche per l’Alzheimer e la demenza vascolare consiste nel tentativo di migliorare la funzione insulinica cerebrale. Di recente è stata condotta una sperimentazione clinica che prevedeva la somministrazione di insulina anche per via nasale, ma i risultati clinici sono stati un po’ deludenti. «Attualmente è in corso un’ ampia ricerca internazionale controllata, in modalità “doppio cieco”, multicentrica, che durerà oltre tre anni. Obiettivo, valutare l’efficacia e la tollerabilità di semaglutide, un farmaco specifico per la cura del diabete di tipo 2, nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer in fase iniziale» aggiunge Scarpini. C’è ancora tanto lavoro da fare, ma conoscere il ruolo del diabete come concausa e fattore di rischio importante apre la strada per mettere a punto trattamenti preventivi o terapeutici mirati. Una speranza in più in questa forma di demenza complicata e ancora molto difficile da affrontare.

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