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Baby alcol

Baby alcol

Hanno meno di 16 anni e l’abitudine di trangugiare birra, vino, soprattutto cocktail vari. Succede in tutta Italia, nelle città così come nei paesi. E le chiamate al 118 quando stanno male sono ormai quotidiane. Le ragioni? Per non sentirsi soli, per evitare di pensare.


«Di questi shottini ieri me ne sono fatti dieci. Si chiama il casertano, provalo». Ci dice così Vincenzo mentre tira giù l’ennesimo bicchierino di superalcolico. Non ci sarebbe nulla da notare, non fosse che Vincenzo di anni ne ha 15. Siamo a Napoli, centro storico, a due passi da Piazza Bellini. Lo scenario non cambia spostandoci: basta addentrarsi per vie e vicoli per rendersi conto di quanto birre e alcolici abbiano prezzi bassissimi: spritz a due euro, shot a uno, cocktail massimo a quattro.

In piazza San Giovanni Maggiore – dove arriviamo accompagnati da Vincenzo – un gruppo di ragazzi, fra 10 e 16 anni, racconta che è qui da metà pomeriggio: «Giusto qualche birretta per accendere la serata e prepararsi ad alzare il livello», afferma Giorgio, 14enne. Quando gli domandiamo come facciano a essere serviti, considerato il divieto per legge di vendere alcolici ai minori, sorride beffardo: «Ma figurati se qualcuno ti chiede l’età!».

Sono queste le notti brave all’ombra del Vesuvio, così simili a quelle delle città e dei paesi italiani, dove sempre più giovani iniziano il sabato – e una qualsiasi serata fra amici – con cocktail, birre e shot.

I dati dell’Iss stimano che nel 2020 quasi il 50 per cento dei ragazzi e il 45 per cento delle ragazze tra 11 e 25 anni abbia consumato almeno una bevanda alcolica. Nello specifico, 750 mila i minorenni tra 11 e 17 anni hanno bevuto alcolici nello stesso anno. Alla luce del divieto di vendita a minori di bevande alcoliche, i valori dovrebbero essere pari a zero. Ma c’è di più: secondo le ultime rilevazioni, i binge drinker – ovvero coloro che fanno abbuffate di alcol – tra gli 11 e 17 anni sono 120 mila. Un numero impressionante. Da Sud a Nord.

Un esempio? A Roma anche in luoghi centralissimi come Trastevere, gli interventi del 118 sono all’ordine del giorno. «La maggior parte dei soccorsi per abuso di alcol» ci racconta un operatore attivo sulle ambulanze capitoline «riguarda minorenni. In alcuni casi è sufficiente una coperta termica e un minimo di attenzione, in altri invece è necessario correre in ospedale e procedere a lavanda gastrica perché si sfiora il coma etilico».

Altrettanto preoccupante la situazione a Genova, dove il sindaco Marco Bucci aveva vietato il consumo di alcolici fuori da bar e dehors dalle 16. La decisione ha provocato durissime critiche e manifestazioni, tanto che il Comune ha rivisto l’orario del coprifuoco alcolico, portandolo dalle 22 alle 8 del mattino.

La situazione non cambia neanche a Milano. Basta stazionare davanti alle discoteche più periferiche per trovare orde di ragazzi con bicchieri e bottiglie a seguito. «Non consumiamo all’interno» dice Sabrina, appena diciottenne, di Rozzano. «Ci portiamo tutto dietro: compriamo ai supermercati bottiglie di vodka, gin e poi acqua tonica o limonata. E ci prepariamo i cocktail alla buona, prima di entrare. Così lo sballo è garantito, e la spesa meno di un terzo». E racconta un episodio che le è rimasto scolpito nella mente: «Qualche mese fa sono andata con i miei amici a un party in un palazzo occupato di Milano. A un certo punto un tizio, poco più grande di me, si è sentito male e abbiamo dovuto chiamare il 118. Era andato in coma etilico. Si è ripreso solo al mattino, in ospedale, davanti ai genitori imbestialiti».

Mentre sempre più challenge spopolano su Instagram e TikTok, spesso tragicamente focalizzate sul bere fino a perdere i sensi – i genitori vengono tenuti all’oscuro, e coinvolti solo quando la situazione è fuori controllo. «Da sempre i ragazzi e le ragazze hanno bisogno di varcare i confini dettati dall’autorità per capire cosa succede concretamente e l’alcol è il mezzo più accessibile e socialmente più accettabile. Non dimentichiamoci però che la tutela passa sempre dal buon esempio. Soprattutto con gli adolescenti le parole non valgono nulla mentre i comportamenti, anche se non sempre nell’immediato, educano profondamente» riflette Alli Beltrame, conselour e autrice di Arrabbiati per bene (Mondadori). «Creare occasioni di dialogo sul tema» aggiunge «è importante se si riesce a mantenere la conversazione su dati certi, e non si scade nella sgridata e nella critica, soprattutto generazionale».

Spesso però il confronto diretto salta. E altrettanto spesso il passo tra consumo di alcol e quello di sostanze stupefacenti diventa brevissimo.

Torniamo all’inizio del nostro viaggio, a Napoli. Vincenzo, il ragazzo 14enne degli shot casertani, ci fa conoscere il suo gruppo di amici. Ci ritroviamo in un vicoletto che costeggia la piazza in compagnia di altri cinque ragazzi, mentre uno spinello passa di mano in mano. Chiediamo le varie età, scoppiano a ridere: «Tutti 14 anni, lui 13» rispondono. Quel lui ci racconta la sua storia. «Mia madre lavora tutto il giorno, fa le pulizie in un condominio al mattino e il pomeriggio fino a tarda notte sta a casa di una signora anziana che abita sempre in quel palazzo. Mio padre invece è in carcere». E quindi, ci dice, rimane fuori spesso e volentieri fino a tardi perché, rivolto agli amici, «questa è la mia famiglia».

Di storie così ne abbiamo sentite a decine. Molte rivelano situazioni di abbandono e di fragilità, altre il desiderio di sballarsi – spendendo il meno possibile – per essere parte di un gruppo. Un gruppo che in questa zona grigia in un attimo si trasforma in branco, come ci racconta don Salvatore Giuliano, parroco della chiesa di San Giovanni Maggiore che affaccia proprio nell’omonima piazza. «Ho installato delle telecamere di sorveglianza perché non se ne poteva più dei continui atti vandalici» rivela.

Vediamo le immagini insieme a lui. Ci sono ragazzi che abbattono fioriere e le prendono a calci, altri imbrattano la facciata della chiesa. «E questo non è niente. Il problema è quando, senza rendersene conto, attentano alla loro stessa vita».

Racconta, don Salvatore, di quanto accaduto solo pochi mesi fa, quando un ragazzino ubriaco si è arrampicato sul campanile con l’obiettivo di suonare le campane, con la folla di amici che da giù lo incitava. «Nel 2016» aggiunge «poco lontano da qui un ragazzo di 23 anni si è arrampicato sull’obelisco in piazza San Domenico Maggiore, è caduto ed è morto. Chi ci dice che non potrebbe accadere di nuovo?».

Per quanto il parroco abbia a più riprese richiesto l’intervento delle autorità, non ha avuto alcun sostegno. «Mi dicevano sempre la stessa cosa: non ci sono pattuglie disponibili. E così, ho deciso una volta al mese di aprire le porte della chiesa proprio ai ragazzi. Per parlare, per discutere, per creare dialogo».

Con il sostegno di alcune professioniste, i giovani hanno cominciato a parlare e sfogarsi. «Dai loro racconti, la prima tematica che emerge è un gran senso di solitudine. Sono bombardati dai social, sempre connessi, ma in realtà profondamente soli» spiega la psicologa Maria Francesca Cattaneo Della Volta, che qui presta servizio.

Una solitudine che provano a spazzare via fra un bicchiere e un altro, e un altro ancora. Magari con l’obiettivo dello smartphone piantato in faccia. Trangugiando alcol nella speranza di arrivare allo sballo. «Bevendo non hai modo di pensare. Sembra assurdo» conclude Nazareno, uno dei ragazzi del quartiere, «ma a volte ci vuole più forza a parlare che a stare in silenzio e ubriacarsi».

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