Vietato dal 1992, questo materiale è ancora largamente presente, in Italia, in edifici e fabbricati. E il censimento ufficiale dei siti «a rischio», che ne conteggia 108 mila, è incompleto. I luoghi dove smaltirlo sono troppo pochi, mentre i piani di bonifica vanno a rilento, spesso a causa di costi elevati e incertezze burocratiche.
L’amianto è insidioso. Colpisce quando è «perturbato», durante ristrutturazioni o terremoti, o quando si deteriora nel tempo. Le sue fibre rilasciate nell’aria, se inalate, possono uccidere: restano in incubazione nei polmoni, per manifestarsi anche a distanza di 30-40 anni in forma di tumori. Anche se il suo impiego in tutte le forme d’uso è stato vietato nel 1992, è ancora presente in fabbricati residenziali, edifici pubblici (scuole, asili, ospedali, luoghi amministrativi), siti industriali costruiti tra gli anni Cinquanta e Ottanta, quando era diffuso nell’edilizia e in applicazioni civili e industriali. E ora, anche come conseguenza indiretta di interventi di rilancio dell’economia (Superbonus 110 per cento, Bonus facciate, Ecobonus, Sismabonus e quello per la rimozione dell’amianto) la paura di questo materiale sta tornando.
Qui ci sono i pericoli maggiori
Sono 108 mila i siti a rischio censiti nella Banca dati amianto del Mase, il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica. Il conteggio non comprende i 42 Sin (Siti di interesse nazionale), ovvero aree estese, inquinate da amianto e altri agenti, classificate come pericolose e disseminate sul territorio nazionale. Hanno nomi noti, talvolta legati a scandali, come Broni – ex Fibronit, appena sequestrata dalla Guardia di Finanzia per omessa bonifica, o Casale Monferrato (Torino), ex-sede della Eternit, il più grande stabilimento in Europa di cemento-amianto. Solo in Lombardia, le aree contaminate – registrate al 31 dicembre 2021 in Agisco (Anagrafe regionale dei siti contaminati) – sono 1.021, soprattutto nella zona milanese (492 siti) e in crescita rispetto agli anni precedenti.
Chi pensa che i numeri della Banca dati ministeriale corrispondano davvero ai fabbricati «infettati» si sbaglia. Lo stesso sito del Mase, citando il Piano nazionale amianto, scrive che: «La Banca dati non ha una copertura omogenea del territorio nazionale. Inoltre, i suoi numeri necessitano di ulteriori verifiche perché le Regioni non hanno utilizzato criteri omogenei. Per esempio, si osserva che circa il 55 per cento dei dati è riconducibile alle sole regioni di Piemonte e Marche».
La mappatura è effettuata da Regioni e Province autonome, che si avvalgono delle Agenzie per la Protezione ambientale (Arpa, Appa). Il Mase raccoglie i dati relativi all’amianto floccato o in matrice friabile presente negli edifici trasmessi entro il 30 giugno di ogni anno. Ma già in un rapporto del marzo 2021, Andrea Merri di Arpa Lombardia aveva rilevato diverse criticità: «Il sistema non è efficiente perché richiede ai tecnici pubblici l’inserimento manuale delle informazioni. Il carico di lavoro per l’aggiornamento si traduce spesso in una compilazione incompleta o ritardata». Luciana Distaso, dirigente del Mase, ammette il problema: «In quest’ultimo anno abbiamo avviato una collaborazione con Regioni e Provincie, con 2 milioni di euro per acquisire immagini satellitari multispettrali ad alta risoluzione, così da aggiornare i dati e far emergere coperture non censite».
Nei prossimi mesi, il Mate, con l’aiuto del Cnr, punta ad acquisire immagini satellitari, per una nuova mappatura entro il 2023. «È stato chiesto a Regioni e Provincie autonome di inviare il perimetro delle aree prioritarie oggetto di indagine» aggiunge Distaso. Peccato che le Regioni che, per ora, hanno risposto siano solo 9 (Basilicata, Campania, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Piemonte, Toscana, Veneto). Sono oltre 71 mila chilometri da indagare. Il resto manca.
Come stiano davvero le cose lo spiega a Panorama Fabrizio Benedetti, coordinatore generale della Consulenza tecnica Accertamento rischi e prevenzione, Inail: «In Italia sono oltre 12 milioni gli edifici che contenengono amianto, oltre a 1,5 miliardi di metri quadrati di coperture in cemento-amianto, pari a circa 22 milioni di tonnellate. Infine, c’è da aggiungere un’enorme estensione di condotte idriche in cemento-amianto, materiali abbandonati nelle campagne e nelle discariche abusive, i Siti di interesse nazionale, in cui questa sostanza veniva usata come materia prima, e gli affioramenti naturali in diverse zone del territorio nazionale».
Eliminarlo sì, ma come?
La progressiva eliminazione dell’amianto non potrà avvenire in tempi brevi se si considerano gli enormi quantitativi in gioco e i costi da sostenere. L’attenzione dei media è generalmente rivolta ai Siti di interesse nazionale, spesso oggetto di scandalo, dimenticando che l’amianto si trova in tettoie, in colle di pavimenti plastici, cavedi per isolamenti, coibentazioni caldaie, scarichi e tubi di riscaldamento, canne fumarie, intonaci di edifici pubblici e privati. Ossia in zone difficili da rilevare se non con specifici esami.
Per individuarne la presenza e organizzare gli interventi di rimozione sono stati definiti, da poco, i «Responsabili del rischio amianto», gli Rra. «Ma solo tre Regioni, Marche, Liguria e Piemonte» precisa Benedetti «hanno disciplinato i requisiti professionali di questa figura. Anche perché mancano ancora le norme per uniformare e applicare tali obblighi sul territorio nazionale».
Bonifiche e discariche
I bandi ministeriali, regionali e dell’Inail che assegnano contributi per la rimozione dell’amianto sono tanti (ma spesso si sono trasformati in una mangiatoia pubblica). Richiedono interventi specializzati per confinare, incapsulare e rimuovere. I piani di bonifica però vanno a rilento e manca un piano per il controllo dei costi sociali e ambientali. E molto spesso, a causa di una spesa elevata, non vengono effettuati velocemente. «Non ci sono sufficienti indicazioni sui tempi per raggiungee gli obiettivi proposti, sulla stima delle risorse necessarie, non solo finanziarie, e sulle priorità d’intervento. Talvolta non vengono fornite indicazioni sulla presenza, neppure potenziale, di siti destinati allo stoccaggio permanente» scrive Gianluca Pirani dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) in uno studio sui bandi regionali.
Dietro alla cruciale carenza di siti di smaltimento c’è un doppio problema. Da un lato, non esistono ancora validi metodi alternativi allo smaltimento in discarica; dall’altro, è necessario limitare le lacune della pianificazione regionale e la burocrazia che rallentano smaltimento o recupero di rifiuti pericolosi. Dal report di Valeria Frittelloni, responsabile del Centro nazionale dei rifiuti e dell’economia circolare di Ispra, nel 2020 le discariche in Italia sono diminuite a 18 (erano 23 nel 2017). Quattro in Sardegna e quattro in Piemonte, di cui una è dedicata al sito di Casale Monferrato (Alessandria), ex sede di Eternit; ne contano due Lombardia, Friuli-Venezia Giulia e Toscana; una Emilia-Romagna, Basilicata, Abruzzo e Puglia. E solo nove regioni hanno almeno un impianto specifico per l’amianto. Le due discariche del Friuli-Venezia Giulia hanno gestito 229.169 tonnellate di rifiuti contenenti amianto, pari al 58,63 per cento del totale nazionale. Altre 6.348 tonnellate sono state esportate in Germania, 1.650 in Spagna e 192 in Francia.
«Serve un intervento legislativo» scrive il Mase «per autorizzare nuovi siti di smaltimento, anche in cave e miniere dismesse. Esistono esempi recentissimi di Comuni che hanno accettato, dietro compenso, discariche per amianto sul proprio territorio, da loro stessi gestite e controllate». Per esempio Casale Monferrato ha realizzato e gestito una discarica a servizio delle bonifiche di 48 Comuni, in un’area storicamente segnata dalla presenza di amianto. Con il Programma nazionale di gestione dei rifiuti approvato il 24 giugno, «deve essere individuato a livello regionale il fabbisogno di smaltimento, anche in base alla presenza di eventuali impianti di inertizzazione». L’eredità lasciata dal ministro Roberto Cingolani prevede un’obbligatorietà che scatta dopo 18 mesi dal decreto. Ora le Regioni non potranno più far finta di niente.
Per renderlo inerte
Il Parlamento europeo aveva già suggerito, a marzo 2013, l’uso degli «impianti di inertizzazione», perché mandare i rifiuti di amianto in discarica non è il sistema più sicuro per eliminare il rilascio di fibre, soprattutto in aria e acque di falda. Questi impianti portano le scorie ad alta temperatura (1600°C). «Dopo la loro fusione si ottiene un materiale inerte che, miscelato con un legante, può essere usato nel settore edile» spiega Cristina Tedeschi del dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano, che ha vinto il premio Switch2Product 2021 con il progetto iMiA, impianto mobile per l’inertizzazione dell’amianto. «È un prototipo, ma ci ha permesso di ottenere una discreta quantità di materiale, che grazie al supporto di una start-up italiana, si è trasformato in un nuovo prodotto: per ora solo un pannello, ma in domani potrebbe rigenerare l’arredo urbano delle nostre città».
In Italia non esistono impianti simili perché non sono previsti incentivi per tecniche di inertizzazione, non ci sono nemmeno i decreti applicativi. Senza contare che «mancano le norme relative al materiale così prodotto. Una volta trasformato, l’amianto diventa inerte e non è più un rifiuto “tossico”, ma non esiste ancora una norma che lo regolamenti» aggiunge Tedeschi. Quindi è difficile poterlo immettere nel mercato come materiale riciclato, come accade per plastica, carta e vetro».
Chi protegge i lavoratori
I tumori professionali sono la prima causa dei decessi correlati al lavoro nell’Unione europea, con ben il 78 per cento associati all’amianto. Solo nel 2019 più di 70 mila lavoratori sono morti per le conseguenze dell’esposizione a questa sostanza. Lo scorso ottobre la Commissione europea ha presentato una proposta di modifica della Direttiva del 14 marzo 2013 sull’esposizione all’amianto durante il lavoro, che presto sarà discussa dal Parlamento Ue. Prevede una riduzione del limite a un valore 10 volte inferiore rispetto all’attuale.
Tra le proposte: dare più sostegno alle vittime, indagini diagnostiche di prevenzione, un registro digitale per condividere i dati, dalla progettazione alla costruzione alla demolizione dei fabbricati; e lo smaltimento dell’amianto con nuove tecnologie. Gli Stati membri avranno due anni di tempo per attuare questa direttiva.
Purtoppo, nel mondo, l’amianto è stato bandito solo da 69 Paesi su 206. Gli Usa, per esempio, continuano a usarlo in edilizia. Lì la conta dei morti sul lavoro non la fa nessuno.