«Quando gli altri vedono il sole, noi vediamo la tempesta avvicinarsi» dice a Panorama Luca Richeldi, il maggiore pneumologo italiano che fa parte del Comitato tecnico scientifico. «Tutto il mondo cercava un vaccino, lo abbiamo trovato».
Le spiego come funziona la polmonite interstiziale indotta dal Covid?
Sono qui per questo, lei è il re degli pneumologi.
(Ride). Non sono re di nulla, solo un medico di campagna. Ma lei immagini il polmone come un albero e gli alveoli come foglie.
Ci sono.
L’albero vive grazie alla sintesi della clorofilla, il corpo umano per l’ossigeno che i polmoni assicurano al sangue.
Certo.
Vede, noi siamo abituati a darlo per scontato, ma non lo è.
In che senso?
È la funzione più delicata e miracolosa, tra quelle vitali.
Più delle altre?
Ci pensi. Puoi stare un giorno senza bere, tre senza dormire e quattro o più senza mangiare. Ma nessuno può sopravvivere un minuto senza ossigeno.
Grazie al polmone.
Che prende l’ossigeno dall’aria, per osmosi.
In questo ciclo l’interstizio che cos’è?
Ai miei studenti lo spiego così: immagini un foglio di carta finissima, una preziosa velina fra il sangue e l’aria.
La polmonite interstiziale distrugge quel miracolo?
Esatto. Immagini che la velina per colpa del virus si inspessisca, diventando rigida come un cartone da imballo.
L’ossigeno non passa più.
E così tu smetti di respirare.
Una tortura.
Si va in asfissia, si vive una sensazione di soffocamento, la chiamiamo dispnea.
Perché é così difficile da curare?
Colpisce i rami bassi della pianta, i più difficili da curare. Per questo si devono ventilare e a volte intubare i pazienti.
Perché?
Ha caratteristiche uniche che la rendono pericolosissima.
Mi dica la peggiore.
Evolve a velocità drammaticamente rapida. Da quando colpisce bisogna combattere anche contro il tempo.
Lei è l’unico pneumologo del Cts.
In effetti è così.
In queste ore state assumendo decisioni restrittive per l’Italia.
Vero. Abbiamo avuto riunioni drammatiche: ma io non sono tra i pessimisti. Se vuole le spiego perché.
Luca Richeldi non perde mai il suo sorriso. Professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, direttore dell’unità operativa di Pneumologia del Policlinico Gemelli, membro del Comitato tecnico scientific, presidente della Società italiana di pneumologia.
Come è entrato nel Comitato?
In corsa.
In che senso?
Una mattina squilla il mio telefono: è la segreteria del ministero della Salute.
Cosa le dicono?
Frasi apparentemente vaghe: «Professore, stiamo costituendo una struttura, vorremmo che partecipasse a una riunione e, se necessario, anche a delle altre». Eravamo a inizio pandemia.
E poi?
Tutto qui. Tant’è vero che ero molto stupito di ritrovarmi con gli altri in quella stanza di via Vitorchiano.
Perché?
Mi dicevo: come mai ci convocano alla Protezione civile? Lì si gestiscono emergenze e terremoti.
Era poche ore dopo la scoperta dei due cinesi positivi a Roma.
Alla fine della prima riunione fu chiaro che eravamo in una situazione grave.
Cosa pensa di tutte le critiche che vi piovono sulla testa?
Bisogna capire le condizioni in cui abbiamo deciso in quelle ore.
Le ricordi.
Epidemia ignota, senza precedenti. Zero studi a cui far riferimento. Solo noi colpiti in tutto il mondo, oltre alla Cina!
Cosa ha pensato?
Mi sembrava di essere in uno di quei film catastrofici dove il protagonista arriva mentre il disastro si rivela. Purtroppo era tutto vero.
Fermiamo per un attimo il racconto del Comitato: da dove viene Luca Richeldi?
(Sorriso). Dalla campagna emiliana. Da Portile, provincia di Modena.
Che territorio è?
(Ride). Uno dei pochi in Italia dove la densità di suini supera quella umana.
Cosa facevano i suoi?
Una famiglia contadina: mio padre era commerciante di salumi.
Lei ha preso l’ascensore sociale.
Senza dubbio: papà non aveva la licenza media, io sono il primo laureato della mia famiglia.
E sua madre?
La classica casalinga emiliana.
Da piccolo cosa voleva fare?
Mi è andata bene: il medico.
Davvero?
Se non mi prende in giro le dico perché: mi ero fissato dopo aver visto Omar Sharif ne Il dottor Zivago. Era una professione utile.
E l’amore per lo studio da dove veniva?
Ho avuto un nonno partigiano, fondatore delle cooperative alimentari, autodidatta e curiosissimo.
Merito suo?
Entrava in casa mia con un libro in mano e mi diceva: «Tieni: leggi Socrate, poi ne parliamo».
Da suo padre cosa ha imparato sui salumi?
(Ride). Una lezione per la vita. Se valuti un prosciutto, o un salame, l’olfatto conta più del sapore.
Perché?
Il secondo si può falsificare sempre. Il primo mai.
E si torna ai polmoni.
Vero.
Come passa dal Dottor Zivago alla pneumologia?
Mi diplomo.
E poi?
Al terzo anno di Medicina viene a farci lezione un grande luminare della pneumologia: il professor Velluti.
Cosa fa scattare la scintilla?
Ci mostrò delle provette piene di liquido alveolare.
Un classico: quello dei fumatori nero, quello dei polmoni sani pulito…
Era un organo che si poteva capire e curare.
E il professor Velluti che fine ha fatto dopo averle cambiato la vita?
Era uno di quelli che stava nel reparto come a casa sua. È morto lì.
Come un attore sul palcoscenico.
Esatto.
Con quanto si è laureato?
110 e lode.
Suo padre fu felice?
Disse: «Hai fatto la cosa giusta perché capisco che è quel che ti piace».
Ed è vero?
(Sgrana gli occhi). Non bisogna dirlo all’amministrazione del Gemelli, ma io al mattino andrei a lavorare anche gratis.
È diventato professore tardi.
Nel 2005. Prima ho fatto il medico ospedaliero: guardie, borse di studio, corsie… La mia gavetta.
Anni a Modena, poi va in America.
A San Francisco, per breve tempo. Poi in Inghilterra, a Southampton.
Conosceva qualcuno?
Nessuno, zero. Nel 2013 mi propongono di fare il full professor per mail. Parto.
Ci resta tre anni.
In un ospedale che ha fatto la storia della medicina respiratoria. Le mie due figlie sono ancora in Inghilterra.
Lì è diventato uno dei più grandi esperti di fibrosi polmonare. C’è molta differenza con l’Italia?
Nulla a che vedere. Per la ricerca è come stare su un altro pianeta.
E perché torna?
Amo il mio Paese. Dalla Cattolica mi chiamò il professor Crea, uno dei cardiologi più importanti d’Europa: «Vieni al Gemelli?». Accettai subito.
Torniamo al Comitato. Siete spesso percepiti come una torre d’avorio.
Io quel giorno rimasi subito impressionato dalla qualità scientifica delle persone che ne facevano parte: Locatelli, Brusaferro, Ippolito, Rezza, Villani…. E poi due miei colleghi del Gemelli: Bernabei e Antonelli.
Avete normato su tutto, persino sui trasporti.
Sì, ma io, se si parla di come riempire una metropolitana, ascolto e taccio.
Lei non è un epidemiologo.
Infatti, all’inizio mi sono sentito come un bambino al luna park che vede per la prima volta la ruota panoramica.
A quante riunioni ha partecipato?
Abbiamo firmato la settimana scorsa il 135esimo verbale.
Lei ne ha mai redatti?
No, se ne occupa Fabio Ciciliano, funzionario della Protezione civile.
Il custode dei segreti.
Non ci sono segreti.
Ma i verbali erano secretati.
«Riservati».
C’è differenza?
Direi proprio di sì: infatti i più vecchi sono diventati noti.
Perché sono «riservati», secondo lei?
Non possono essere divulgati in tempo reale. Ogni parola ha un peso. Sono documenti che resteranno.
Mi faccia un esempio.
Chi poteva immaginare, quel primo giorno, che ci saremmo ritrovati pochi mesi dopo con i ristoranti chiusi?
E la riunione più drammatica?
Senza dubbio quella in cui Alberto Zoli, responsabile dell’Agenzia per l’emergenza della Regione Lombardia, ci fece capire la dimensione del dramma che stava avvenendo nella sua area.
Quando?
A fine febbraio ci mostrò l’incremento di chiamate al 118: un’esplosione.
Come reagiste?
Non avevamo in mano nulla: terapie, diagnostica, nessuna idea. È il nostro paradosso.
Quale?
Adesso il Cts ha affinato gli strumenti. Quando gli altri vedono il sole, noi vediamo la tempesta avvicinarsi.
Avete chiuso scuole e attività.
Glielo spiego così. Io come individuo posso rischiare. Ma se decido in nome di un interesse collettivo ho l’obbligo di attenermi al principio di massima precauzione.
Quante volte avete votato a maggioranza?
Mai. Abbiamo sempre discusso molto e ci siamo sempre convinti delle decisioni.
La riunione più lunga?
Spesso nell’emergenza abbiamo superato 4 ore. Il record è oltre 5.
State attuando un lockdown a rate?
No, io il lockdokwn lo voglio evitare. Adesso la gente vede le regioni che diventano rosse e si arrabbia con noi.
Ovvio.
Quando torneranno gialle cosa diranno?
Possiamo reggere 30-40 mila casi?
Siamo sempre sotto la Francia. Dobbiamo resistere nove mesi, un anno.
Fino al vaccino.
Il mondo cerca soluzioni. Le stiamo trovando.
E l’accusa di aver scelto le regioni su base politica?
Insensata. Non me l’aspettavo. Ma capisco.
Cosa rappresenta la scienza in questa epidemia?
È ciò che trasforma un mistero in un enigma.
Perché?
Un mistero non si può risolvere, un enigma sì.