A causa della diffusione del virus tra i cinghiali, sono a rischio anche gli allevamenti di maiali e i salumi italiani – una delle nostre eccellenze alimentari. Molti Paesi nel mondo hanno bloccato l’import, con una perdita di 500 milioni di euro.
È come scendere in pista con una Ferrari col freno a mano tirato. Peraltro tra Mirandola, Modena, Fiorano e Maranello, le terre della «rossa», deviando per Castelvetro, Formula 1 e suini si danno la mano. La Ferrari in questo caso sono i nostri magnifici quattro: i prosciutti Dop Parma, San Daniele, Toscano e Veneto che hanno stravinto l’anno scorso il gran premio dell’export. Messe tutte insieme le «cosce» fatturano 1,8 miliardi di euro con il «Parma» che vale il 75 per cento. Tutti i salumi italiani sono in crescita sui mercati esteri: ne abbiamo inviati oltreconfine per quasi due miliardi e se la mortadella è la regina del mercato, i grandi prosciutti sono l’avanguardia insieme a gioielli come il Carpegna, il Jambon de Bosses, il Culatello di Zibello. Per avere una dimensione soccorrono i dati Crea: la trasformazione delle carni vale il 22 per cento del comparto agroalimentare.
È vero che il consumo interno è in lieve contrazione, ma è anche vero che i salumi a più alta qualità vanno, percentualmente, meglio dei prodotti non a marchio di origine. Il freno a mano ha un nome sinistro: peste suina africana. Al recente Cibus, la fiera di Parma che si tiene a metà maggio ed è il punto d’incontro della nostra industria agroalimentare (equivale grosso modo 18 punti di Pil), il presidente di Assica – l’associazione che aderisce a Confindustria e riunisce i produttori di carni e di salumi – Francesco Pizzagalli è stato chiarissimo: «Con il ritrovamento a metà aprile di un cinghiale infetto a Varano de’ Melegari, la zona di restrizione è stata allargata alle aree di Collecchio, Sala Baganza e Felino, mettendo in forte crisi le aziende che esportavano. Abbiamo già aziende che hanno messo in cassa integrazione i dipendenti: da allarme sanitario la peste suina rischia di diventare un allarme sociale». A tradurlo in cifre ci ha pensato Davide Calderone, il direttore di Assica: «Fino a questo momento si sono avute perdite legate al mancato export per circa 500 milioni di euro in due anni e, se le cose non dovessero migliorare, il rischio sarebbe di subire ulteriori perdite per 60 milioni al mese». Come dire che in un anno ci «mangiamo» un terzo dell’export visto che il Canada ha già chiuso le frontiere ai nostri prodotti, in America si esporta solo carne stagionata oltre 400 giorni, la Francia sta chiudendo le frontiere. Si temono contraccolpi nel resto d’Europa mentre Messico e Giappone hanno già dichiarato i salumi italiani non graditi.
Ce n’è abbastanza per far diventare la peste suina un disastro economico. Eppure, all’inizio, è stata sottovalutata. Il primo focolaio, il 6 gennaio 2022: a Ovada, nell’Alessandrino, fu trovato un cinghiale infetto morto. Altri furono rinvenuti nel Cuneese (patria peraltro di un gran prosciutto) e si andò avanti con chiusure selettive di allevamenti. Ma l’intervento di abbattimento dei cinghiali fu rinviato anche per «timori» animalisti. L’allora ministro della Salute Roberto Speranza coltivò la speranza di circoscrivere i focolai. Lo scorso anno la minaccia peste suina si è trasferita nell’Oltrepò pavese. Nel frattempo sono stati posti severi controlli negli allevamenti, ma come osserva Guglielmo Golinelli, già giovanissimo deputato della Lega che gestisce uno dei più importanti allevamenti suini della pianura emiliana, «sono mancati da subito gli abbattimenti dei cinghiali, la disinfezione dei camion, la chiusura delle zone infette».
Ora il timore vero è la propagazione agli allevamenti emiliani che sono il «giacimento» di materia prima non solo per i prosciutti Dop, ma di buona parte dei salumi di maggior pregio. Su circa 9 milioni di maiali italiani nei quattromila allevamenti emiliani si contano 1,4 milioni di capi. Spiega Letizia Vigni, che alleva e trasforma maiali di Cinta senese ad Asciano (Si): «Il Consorzio ci ha imposto subito rigidissime norme sanitarie, per ora ci siamo salvati, ma il pericolo vero viene dai cinghiali». Il ministro della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida nel decreto agricoltura – che però ha ricevuto correzioni dal Quirinale – ha rilanciato l’azione del commissario straordinario all’emergenza peste suina. Vincenzo Caputo nell’ultima ordinanza ammette che «la malattia continua a diffondersi con un andamento discontinuo: ci sono focolai ristretti a grande distanza». Sono i cinghiali che spostandosi trasportano la peste. Per questo l’esercito, che per ora è stato messo in campo solo per recuperare le carcasse di animali morti, metterà nel mirino i cinghiali. Viene rafforzato il controllo sulla commercializzazione delle carni di maiale e sono state istituite delle squadre speciali, i cosiddetti Got, che dovranno intervenire per prevenire e controllare i focolai. Sono un piccolo esercito di veterinari che con i guardia-parco, i Carabinieri forestali «pattuglieranno» campi e boschi.
Restano sotto stretta sorveglianza tutti gli allevamenti suini e là dove si avessero capi infetti vanno subito abbattuti. Ma la vera «unità speciale» in questa guerra ai cinghiali – partita tardivamente visto che da anni le organizzazioni agricole chiedono la limitazione della fauna selvatica che produce enormi danni alle colture: la Coldiretti li stima in 900 milioni di euro all’anno – sono i bioregolatori. Unità di caccia in grado di fare (molte) catture selettive. E la novità è che se il cinghiale abbattuto non è infetto può essere portato in tavola tra amici. Insomma contro la peste suina si torna all’antico: quando in Maremma la caccia al cinghiale finiva sempre in «bandita». Noi diremmo imbandita.