Cattelan, finalmente umile, funziona
«Una semplice domanda» è un prodotto che convince per la semplicità e la genuinità del conduttore che abbandona l'idea di diventare il nuovo Letterman italiano
Alessandro Cattelan avrebbe potuto fare quel che ha fatto per anni, troppi, forse: recitare la parte di Alessandro Cattelan, dell’uomo sulle cui spalle poggia il peso di chi sostiene – pur contro ogni evidenza logica – che anche l’Italia possa avere il suo David Letterman. Lo avesse fatto, fosse rimasto quel che è stato fino ad oggi, Una semplice domanda sarebbe stata la copia di Da grande, a sua volta trasposizione, con pretese metafisiche, di quel che Cattelan ha sempre fatto per Sky. Invece, Una semplice domanda, show disponibile su Netflix dallo scorso venerdì, è parso altro, un percorso alla scoperta di chi sia Cattelan oltre la maschera del forse-David-Letterman. Il programma, sei puntate costruite sul quesito che sua figlia maggiore, Nina, gli ha posto («Papà, come si fa ad essere felici?»), non ha l’ambizione di risolvere un mistero vecchio quanto lo è il mondo, sciorinando la formula per una vita piena, che possa bastare a se stessa. Eppure, nel suo muoversi da un personaggio all’altro, fra esistenze illustri e altre sconosciute, riesce a regalare un attimo di distrazione. Profonda, senza essere pesante, divertente, senza diventare sciocca.
Cattelan, che per Netflix ha smesso i panni del profeta dell’intrattenimento, di colui che prometta l’arrivo (e chissà quando) della televisione che si invidia agli americani, ha rivolto ad altri la domanda che si è visto fare. «Come si fa ad essere felici?», lo ha chiesto ad un prete e una donna musulmana, a persone di fede e personaggi in vista, Roberto Baggio, Paolo Sorrentino, Gianluca Vialli, che Dio solo sa come possa trovare felicità nel dolore di un cancro. Lo ha chiesto, senza parlamentare sulle risposte. Lo ha chiesto come lo può chiedere l’uomo qualunque, con una curiosità priva di aspettative. Lo ha chiesto e, a volte, le risposte incassate sono state banali. Ma, nel caso di Una semplice domanda, giudicare il programma per la (apparente) banalità delle risposte avrebbe poco senso.
Lo show, il primo cui Cattelan si sia dedicato dopo il flop – in termini di share – del programma che lo ha visto esordire su RaiUno, Da grande, ha sì una sua componente di banalità. Ma quella banalità che si ritrova nelle parole di chi deve rispondere a domande grandi quanto il mondo è la banalità dell’uomo, una banalità bonaria, figlia dell’ordinarietà dell’esistenza. Viene da sorridere, dunque, a sentir recitate certe formule, a prendere contezza di come nessuno, neppure gli idoli della nostra infanzia, sappia dare risposte alle domande che tormentano l’uomo. Siamo uguali, tutti, di fronte al mistero della felicità. Siamo uguali nello scoprirci incapaci, e c’è una sua bellezza nel riconoscersi tra simili. Una semplice domanda, cui tanti hanno rimproverato di non saper fornire chiavi che aprano le porte della trascendenza, è un piccolo trionfo di empatia. E Cattelan, abbandonata l’autoreferenzialità che lo ha sempre fatto somigliare più ad un Fabio Fazio che ad un David Letterman, è il Cattelan migliore degli ultimi anni: non più profeta, ma uomo, afflitto dagli stessi dubbi, dagli stessi sogni, dalle stesse domande che affliggono ogni altro uomo (o spettatore).