Guai a parlare di Avetrana
Una fiction bloccata dal Tribunale perché avrebbe leso l’immagine del paese del Tarantino è l’ultimo cortocircuito di una tragedia, quella di Sarah Scazzi. Gli autori del libro, da cui la serie è stata tratta, dicono la loro
Ci sono due donne in carcere, condannate all’ergastolo, che non smettono di dirsi estranee ai fatti. E c’è un uomo che, considerato innocente dalla giustizia, continua a definirsi colpevole. E già questo contiene una sensazione di «testacoda». Ma c’è anche una fiction, distribuita in tutto il mondo e promossa da un grande broadcaster internazionale, che porta il nome di un luogo da settemila anime dove un atroce delitto si è consumato - Avetrana, in provincia di Taranto -, la quale viene prima fermata dal Tribunale (dopo il ricorso del Comune che ha temuto per l’immagine della cittadina), infine autorizzata alla messa in onda a patto che il titolo cambi, epurato dal nome. E così è stato: da Avetrana - Qui non è Hollywood al semplice Qui non è Hollywood, serie ora visibile su Disney+. Sembra un cortocircuito, finanche un paradosso, invece è la realtà. Quella realtà che - come notava Cesare Pavese - «è immensamente più povera della fantasia umana».
Della storia di cui parliamo ci siamo occupati a lungo, scrivendo un libro (Sarah - La ragazza di Avetrana, pubblicato da Fandango) da cui la fiction citata è stata tratta. La vicenda, tragica quanto ormai nota, è quella di Sarah Scazzi, quindicenne uscita di casa il 26 agosto 2010 per andare al mare con la cugina Sabrina Misseri, e ritrovata 42 giorni dopo in fondo a un pozzo grazie alla confessione dello zio Michele Misseri. Una storia che è tante storie insieme. Vicende che quasi sempre hanno a che fare (come questo ennesimo capitolo) con i media. Ma anche con l’immagine che diamo agli altri di noi, con quello che gli altri di noi percepiscono e con ciò che vorremmo invece comprendessero. Con aule di tribunale - quelle dove il processo si è consumato, e dove si è arrivati adesso - e con decine di inquietanti, allarmanti buchi neri (quelli raccontati nel libro puntellano le indagini e il processo). Soprattutto, è una storia che ha molto a che vedere con i segreti. Ed è proprio questo miscuglio esplosivo - di confessioni, ritrattazioni, persone che vengono indagate perché sostengono versioni differenti rispetto a quelle della procura, fiorai che dicono di aver visto inseguimenti che poi professano essere sogni, e altre stranezze che a metterle tutte insieme sembrerebbe di firmare un abbecedario di bizzarrie perlopiù avvallate dalla sentenza definitiva - che ci ha fatto appassionare per la prima volta a questa storia quasi dieci anni fa. Una storia che per tutti era definitivamente conclusa dopo tre sentenze e che invece, come un uroboro, il mitologico serpente che si mangia in eterno la coda, alimenta un’attenzione senza precedenti perché pesca nel lato più oscuro, viscido, esasperato di ognuno di noi. È la tragedia magno-greca che si fa in carne e personaggi. È la polvere che si prova a infilare sotto il tappeto. Invano. Tutto però ha la sua iniziale miccia durante i 42 giorni di ricerche di Sarah, quando all’improvviso un anonimo paese salentino viene catapultato alla ribalta. E macellai, bariste, fornai e benzinai smettono di essere semplici macellai, bariste, fornai e benzinai di un paese di provincia per diventare agli occhi della cinepresa - e dunque agli occhi degli italiani famelici di novità - personaggi. Diventano insomma, insieme ai protagonisti di questa storia (tutti ribattezzati con il grado di parentela nei confronti di Sarah e privati del cognome: mamma Concetta, zio Michele, zia Cosima), il flusso di coscienza di un territorio che invece di ritrarsi alle luci della ribalta se ne appropriava, inconsapevole dei danni che questa assoluta disponibilità - non di rado foraggiata dalle emittenti televisive e dai giornali, assetati del benedetto scoop - avrebbe prodotto.
Al contrario di altri luoghi, come Brembate di Sopra da cui poco dopo scomparve Yara Gambirasio, o Garlasco, dove nel 2007 venne ammazzata Chiara Poggi, che si chiusero nei confronti dei «giornalisti invasori», questo piccolo paese spesso si è offerto per rispondere alle domande come per fornire accoglienza, per riferire sottovoce pettegolezzi come per consegnare conti stratosferici per B&B improvvisati. Anfiteatro naturale per mettersi in mostra e agone di straordinaria visibilità, Avetrana si è trasformato completamente, rendendo sempre più labile il confine fra quello che è vero e quello che invece è stato insinuato, raccontato, ipotizzato, arrivando a siglare momenti che hanno segnato definitivamente la perdita dell’innocenza dei suoi vicoli e delle sue piazze, ma anche divenendo tragicomico incubatore di ciò che sarebbe accaduto: l’epopea della mediaticità che contamina con una narrazione univoca e pericolosa i salotti televisivi come le aule di tribunale. E c’è da giurare che questo sia solo l’ennesimo, incredibile colpo di scena di una storia che non può dirsi risolta oltre ogni ragionevole dubbio.