Lo streaming apre alla pubblicità, perché i soldi non bastano mai
Troppa concorrenza tra le società di streaming; così malgrado il successo delle serie tv le società cercano nuovi strumenti per incassare
L’hanno chiamata «rivoluzione», come se in sé avesse il seme della novità. Netflix se n’è fatto promotore. Le ha dato una data, un orario, pure. L’ha venduta come soluzione di compromesso per accogliere le istanze di un pubblico ormai subissato dai canoni mensili e, parimenti, attrarre a sé nuovi utenti. «Poca spesa, tanta resa», è parso dire il colosso dello streaming, che di rivoluzionario, però, non ha fatto granché. Netflix, alle 17 di giovedì 3 novembre, ha varato un nuovo piano di abbonamenti. Roba economica, dove l’inserimento di pubblicità è stato utilizzato per proporre a chi desideri sorbirsela una riduzione del costo mensile. Netflix ha inaugurato un piano Base con pubblicità, e lo ha reso disponibile a 5,49 euro mensili, garantendo agli utenti un risparmio potenziale di 30 euro annui. Cifra che diversi analisti ritengono non avere alcuna utilità. La decisione di inserire la pubblicità nei titoli della piattaforma, decisione presa per contenere le perdite dei primi due quadrimestri del 2022, non avrebbe alcun ritorno positivo sulla crescita di Netflix. Non secondo la maggior parte degli esperti, le cui proiezioni hanno portato la piattaforma a perdere a Wall Street un ulteriore 1,6% del proprio valore.
Il dato è volubile. Netflix, diversamente dagli esperti di cui sopra, prevede di risollevarsi grazie al nuovo piano Base, di rimpinguare la propria platea. E, magari, tutto questo avverrà: le previsioni della piattaforma si riveleranno azzeccate e un’era rosea comincerà, un’altra. Quel che non tornerà, però, nemmeno in una seconda età dell’oro, è la promessa che – nella prima – ha rivestito il ruolo di premessa. Doveva essere diverso Netflix, un’alternativa alle televisioni commerciali e al satellite. Doveva essere nuova, originale, doveva dare all’utente quel che nessuno, allora, osava garantirgli: il diritto di scegliere, e di scegliere davvero, tempi e modi di fruizioni, usufruendo per di più di costi agevolati. Netflix doveva essere per lo spettatore. Invece, soffocato dalla concorrenza, dal moltiplicarsi insensato delle piattaforme e delle offerte, ha finito per soccombere, abbracciando quegli stessi stilemi da cui aveva promesso di tenersi alla larga.
Pubblicità, costi in aumento, una library dove i titoli capaci di appagare sono ridotti ormai ad una sola rosa, sempre la stessa. Netflix ha sacrificato la propria natura, il proprio spirito di pioniere e si è avvicinato, suo malgrado, al modus operandi della tv commerciale. Ha scelto la pubblicità, perché questo potesse permettergli di contenere i costi e ottenere dei ricavi. I costi, quelli, erano aumentati tempo addietro. Si potrebbe obiettare che gli aumenti sono stati poca cosa. E, guardando al singolo provider, l’obiezione reggerebbe. Amazon Prime Video, dalla metà di settembre, ha chiesto un euro in più per ogni mese di sottoscrizione. Ma non è l’euro singolo a contare, è la somma degli euro chiesti ad un utente per assicurarsi la possibilità di vedere tutto. Bisognerebbe pagare infiniti pacchetti, infinite aziende. Bisognerebbe muoversi di piattaforma in piattaforma, accettando di vederla così la televisione, a pezzetti. E bisognerebbe, dunque, sommare i costi dei vari abbonamenti. Allora, si scoprirebbe che le piattaforme streaming, la grande ed economica alternativa al satellite, mezzo obsoleto, è arrivata ad avere un costo complessivo proibitivo: bisognerebbe spendere oltre 55 euro mensili, per poter vedere le principali tv online. Poco importa, dunque, il costo singolo, il risparmio che Netflix ha assicurato attraverso l’introduzione della pubblicità. Non c’è aria di rivoluzione, nel mondo dello streaming. Caso mai c’è un che di reazionario, l’impressione che si stia tornando indietro a quelle modalità che si volevano superare. C’è aria di sconfitta.