Summer Job, l'ennesimo reality che racconta un mondo che non c'è
Poteva essere l'occasione per parlare davvero del rapporto tra giovani e lavoro. Invece, come altri programmi disegnati attorno al mondo dei giovani, diventa tutto trash
La confezione è sfarzosa, luccicante. La Riviera Maya, una piscina affacciata sul mare dei Caraibi, i colori del Messico, le sue spiagge bianche. Il «lusso» ostentato, così tipico di altri programmi televisivi, dei Paesi cui guardiamo con malcelata invidia, ci ha storditi e affascinati. Pareva la promessa di un intrattenimento nuovo, costruito su regole internazionali, non più sul provincialismo da gara allo share della generalista italiana. Avremmo avuto un reality show moderno, il primo. Ma i sogni belli di uno spettacolo agile si sono presto rivelati chimere.
Summer Job, al debutto su Netflix il 16 dicembre, non è stato la rivoluzione che avrebbe potuto essere. Non è stato nuovo, non è stato originale. Non nelle quattro puntate che ci è stato dato vedere in anteprima, quanto meno. Il reality della piattaforma streaming, nelle suddette quattro puntate, ha dimostrato di essere la copia – ben vestita, per carità – di format già visti, i suoi concorrenti cloni di altri più famosi. Le ragazze, cinque, hanno vantato abilità come il twerk e le proprie curve. I ragazzi, altrettanti per numero, hanno annoverato fra i propri interessi il divertimento e le donne (per usare un eufemismo che non sia tacciabile di volgarità). Insieme, hanno bevuto: tequila, vodka, quel che il convento ha messo loro a disposizione. «Voglio tornare a casa come lo scarafaggio di Kafka», ha spiegato una, la più simpatica, nel proprio video di presentazione, legando indissolubilmente divertimento e ubriacatura. Poi, Matilde Gioli s’è palesata alla villa, spiegando alla combriccola che lo show al quale credevano avrebbero partecipato – una sorta di vacanza da sogno con telecamere annesse – non è mai esistito. Avrebbero dovuto lavorare per guadagnarsi la permanenza in Messico, e via di pianti e strepiti. «Non ho mai lavorato un solo giorno nella mia vita», è l’urlo che si è levato dalla magione di Summer Job.
I dieci, «fregati» come tanti altri aspiranti famosi (quelli di Ex on the beach in testa), si sono detti disperati al pensiero di dover puntare una sveglia e rinunciare ai propri «outfit» in favore di sciape divise. Hanno gridato al complotto. Poi, però, ringalluzziti dall’occhio vigile delle telecamere, hanno accettato di prestarsi al gioco. Avrebbero relegato il divertimento (sacrilegio!) alle ore serali e fatto quel che s’ha da fare per guadagnarsi il pane. Pena, l’eliminazione dal reality. Qualche pianto s’è visto comunque. Qualche lagna c’è toccato ascoltarla. «Sono abituata ad essere una principessina io», ha frignato una delle ragazze, certa che la proprietaria dell’albergo cui è stata assegnata fosse «gelosa del mio fisico», perciò bacchettona. Piccole sceneggiate sono andate in onda, roba da Grande Fratello versione liceo. Scaramucce fra i concorrenti, di età compresa tra i 18 e i 23 anni, amorazzi, accoppiamenti. Summer Job ha rispettato il copione di ogni reality quanto a dinamiche fra i partecipanti. Lo ha alleggerito, certo, come la concorrenza delle pay-tv e delle piattaforme streaming ha reso obbligatorio fare. La fotografia è stata dignitosa, le puntate (le quattro, per lo meno, che abbiamo potuto vedere) sono state brevi, la narrazione veloce. Ma oltre il packaging dorato nel quale è stato fatto su, Summer Job si è rivelato un’occasione persa, costruita – aggravante non da poco – su uno stereotipo ormai trito, quello del ragazzino-bamboccione, indotto dalla pigrizia a vivere come parassita dei propri genitori.