Vanni Scheiwiller. Quando l’intellighenzia milanese s’innamorò della Calabria
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Vanni Scheiwiller. Quando l’intellighenzia milanese s’innamorò della Calabria

«Per i viaggiatori italiani “centro-settentrionali” ho attinto alla mia biblioteca personale e al lungo amore che porto per la Calabria» confesserà pubblicamente Scheiwiller, sinceramente attratto dalla millenaria storia e dal paesaggio della penisola calabrese.

Questa volta occorrerà tirare in ballo il vicentino Guido Piovene e il trevigiano, di Mogliano, Giuseppe Berto; il milanese Vanni Scheiwiller ed ancora il trevigiano, di Valdobbiadene, Giancarlo Zizola che calabresi non lo erano nemmeno lontanamente salvo, poi, innamorarsi della Calabria appena vi misero piede: provenivano da ambiti geo-culturali lontani mille miglia da quelli che, invece, li avrebbero affascinati, conquistati e sedotti, senza più abbandonarli. Berto e Zizola, addirittura, avrebbero scelto di “vivere per sempre” nella loro Calabria: il primo sepolto nella sua amata Capo Vaticano, nel Vibonese, dopo donchisciottesche battaglie in difesa di uno dei promontori più belli al mondo; il secondo nel suo “buen retiro” di Cittadella del Capo, altro superbo promontorio della lunga e mutante costa tirrenica Cosentina, divenuta -per l’autorevole vaticanista- luogo d’incanto e cenacolo culturale.

Basterà rivolgersi a loro: diretti discendenti di quella schiera di viaggiatori mittleuropei che tra il XVIII ed il XX secolo scelsero la Calabria come meta del tradizionale Bildungreise, quel viaggio di istruzione e formazione tipico delle classi agiate e colte delle società europee, Piovene, Berto, Scheiwiller e Zizola sarebbero diventati, in terra di Calabria, guide colte e raffinate di quell’intellighenzia lombardo-veneta capace di provare un naturale trasporto per la penisola calabrese: quattro giganti della cultura contemporanea, distanti -loro- mille miglia, da una certa pubblicistica politico-ideologica, folle perché incolta, che ancora riesce ad avere voce nell’Italia del XXI secolo.

Dunque, non intellettuali calabresi di stretta provenienza peninsulare: ma “agitatori” del pensiero che nel loro slancio di amore per una terra altra rispetto alla loro, avrebbero contribuito a far emergere anche i lati meno noti all’opinione pubblica nazionale, attraverso il loro lungo viaggio di scoperta…

Domenica 17 ottobre 1999 moriva a Milano Vanni Scheiwiller: critico d’arte, giornalista, scrittore, era figlio di Giovanni Scheiwiller fondatore, nel 1925, dell’omonima casa editrice ben presto impostasi come una delle più autorevoli per l’elevata qualità delle sue pubblicazioni d’arte e letteratura; suo nonno paterno, Giovanni Scheiwiller, era stato, a sua volta, uno dei primi collaboratori del grande Ulrico Hoepli, editore e mecenate d’altri tempi. Dal 1969 al 1978 aveva tenuto la cronaca d’arte su “Panorama”, Il Settimanale”, “L’Europeo” e poi anche su “Il Giornale” di Montanelli; ma -soprattutto- nel 1977 aveva fondato la “Libri Scheiwiller” una nuova sigla editoriale nata grazie ad un felice sodalizio con il mecenatismo bancario: tutti i maggiori istituti e le fondazioni creditizie vennero coinvolte nel progetto, diretto alla valorizzazione dell’intero paesaggio italiano.

Dunque, sono passati venticinque anni dalla scomparsa di Scheiwiller, (Milano 18 febbraio 1934): il “poeta-editore” milanese legato alla Calabria grazie ad una imponente attività pubblicistica che, per conto della Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, permise di fare luce, con il supporto di poeti e letterati, accompagnati da affascinanti fotografie, sull’immenso patrimonio paesaggistico-culturale della penisola calabrese. Partendo dall’assunto risalente al filologo e critico letterario Piero Camporesi, secondo cui il paesaggio è il luogo in cui la storia s’incontra con il lavoro e la natura con l’arte, Scheiwiller, tentò, «(…) un veloce excursus, a partire dal ‘700, sull’atteggiamento dei viaggiatori stranieri e italiani -centro settentrionali- in Calabria: è rivolto soprattutto all’arte ed al folklore, più che al paesaggio, anche se tutti lodano e ammirano la bellezza intatta e selvaggia; per i viaggiatori italiani centro-settentrionali ho attinto alla mia biblioteca personale ed al lungo amore che porto per la Lucania e la Calabria a partire dal lontano 1956». Amore coevo a quello di Piovene, insomma…

All’epoca, Vanni Scheiwiller era studente di Lettere alla Cattolica di Milano ed insieme all’intellighenzia lombardo-veneta stava compiendo passi fondamentali alla scoperta della sconosciuta Calabria: anzi, conosciuta solo come terra di provenienza di migliaia di valigie di cartone che, a bordo dei treni della speranza, risalivano la penisola, scaricando i legittimi proprietari nelle stazioni di Torino, Genova, Milano, Venezia: «dopo un primo approccio nel 1956 dal finestrino della Freccia del Sud, da Milano a Taormina, vi fu l’occasione del viaggio nel 1957, a Crotone e nella Sila, in occasione del “Premio Crotone”, assegnato per l’opera prima a un mio volumetto di poesie, “Codice Siciliano” di Stefano D’Arrigo: nel gruppetto di letterati, assieme a Giacomo Debenedetti, Aurelio Roncaglia, Enrico Falqui, c’erano anche Gianna Manzini e il celeberrimo anglista Mario Praz. Sono proprio gli anni ‘50 gli anni d’oro di viaggiatori, fotografi e letterati: Luigi Bartolini, Carlo Belli, Giuseppe Berto, Carlo Batocchi, Raffaello Brignetti, Alfonso Gatto e soprattutto Guido Piovene».

Ognuno di questi celebri letterati centro-settentrionali dedicò dedicato pagine ricche di amore verso la terra calabra, proprio loro che certo non erano nati nei suoi confini e che per raggiungerla impiegavano, proprio a metà degli anni ’50, interminabili giornate di viaggio: «Memorabili -ricorda Scheiwiller- le pagine di Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” (Mondadori-Milano, 1957) più da saggista socio-economico che da ammiratore di paesaggi: “la Calabria è rocciosa e spaccata in profonde valli da una cinquantina di fiumi-torrenti con pendenze precipitose”, «ma Piovene è soprattutto un ammiratore del paesaggio della Sila»: “questo paesaggio, verde di boschi e di pascoli è la montagna vera nel senso nordico: ricorda i paesaggi trentini, come l’Alpe di Siusi o addirittura la penisola scandinava. Tuttavia quello che resta dei boschi silani, poco per l’economista, abbastanza per il turista, supera certo di splendore i boschi svizzeri o trentini. La Sila è una fantasia del nord eseguita con il rigoglio meridionale; la tragedia che qui si svolse, sotto apparenze pacifiche, fu quella del disboscamento; la Sila era tutta una foresta: disboscò il primo dopoguerra, disboscarono i tedeschi e gli americani, più disboscarono gli speculatori, approfittando del disordine. La situazione è oggi (1957), migliorata ma non risolta”».

Figuriamoci quando Scheiwiller pubblica le rabbiose pagine che un veneto purosangue, in un estremo gesto d’amore, aveva dedicato ad uno degli scenari più affascinanti del mondo: «Vent’anni dopo, nel 1977, Giuseppe Berto -che si era addirittura trasferito dal suo Veneto a Capo Vaticano- pubblica un opuscolo dal titolo “Intorno alla Calabria”, commosso ed indignato: “(…) i calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato -anche gli alberi, le case, il paesaggio- con un accanimento che l’avidità, l’ignoranza e l’ansia di portarsi al più presto all’altezza di Jesolo e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell’inconscio”».

Non è un caso che l’editore-poeta abbia preso a raccolta i passi più accorati degli uomini di cultura provenienti il più lontano possibile dalla Calabria: non vi arrivavano -come molti dei cosiddetti turisti fanno oggi- con l’arroganza dei colonizzatori, ma scendevano in riva al Tirreno o allo Jonio, con l’intento di conoscere una regione da secoli conosciuta come la figlia prediletta dell’antica Grecia: e per il viaggiatore-intellettuale l’unico scopo era quello di ammirare per innamorarsi.

«In bellezza e Bizzarria (Mondadori, Milano 1960) e poi ne Il mondo che ho visto, (Adelphi, Milano 1982) Mario Praz aveva scritto della “Gita alla Colonna”, e c’ero anch’io con la Manzini ed altri letterati: apparve un anno dopo sulla terza pagina de “Il Tempo”, (19 luglio 1958), dove il celebre anglista recensiva anche “Sulle rive dello Jonio” di Gorge Gissing, tradotto per Cappelli di Bologna (1957), dalla poetessa Margherita Guidacci, e rievocava i grandi viaggiatori del Sud, come Lenormant, mèmore di Chateubriand che decantò “a colori smaglianti i giardini delle case patrizie dei Barraco, dei Berlingieri, degli Zurlo, dei Lucifero”, che già il Gissing non seppe ritrovare e quanto al Bourget, “non trovò presso la Colonna che cardi secchi e fiori di croco rosa”».

Affascinante la Calabria di un milanese doc, poeta ed editore, che esortava il suo pubblico di lettori «(…) ad affrettarsi a scoprire le complesse bellezze della Calabria: prima che sia troppo tardi».

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Egidio Lorito