Home » Il Monopoli della vigna

Il Monopoli della vigna

Il Monopoli della vigna

Dalle Langhe alla Sicilia, i territori di produzione vinicola sono ormai «oggetto di desiderio» come forma molto redditizia di investimento. Ma troppe cantine, a differenza della Francia, hanno ancora una dimensione familiare e le acquisizioni, soprattutto straniere, si moltiplicano.


La battuta è datata, ma rende l’idea. Chiesero a Gianni Agnelli perché si fosse comprato Château Margaux (acquisì il 75 per cento poi rivenduto degli eredi a Corinne Mentzelopoulus, una sorta di Dioniso al femminile) e lui rispose: «Perché l’investimento in vino rende sempre, mal che vada te lo bevi». Bere Margaux è bere ottimamente. Era il 1997 quando l’Avvocato fece l’affare. Oggi la Mentzelopoulus ha moltiplicato per cento il valore dell’azienda (non basterebbero 700 milioni di euro per comprarla), è ancora nella top ten delle bottiglie più costose (153 mila euro per una Balthazar da 12 litri del 2009) anche se le ultime annate da collezione hanno avuto ribassi. Questa è la differenza più rilevante oggi tra la Francia del vino leader in fatturato, export e prestigio, e l’Italia leader in quantità: i francesi danno valore alle loro cantine, si sono in parte finanziarizzati, hanno concentrazioni e campioni dell’imprenditoria come monsieur Bernard Arnault stando ai calcoli di Forbes l’uomo più ricco del mondo – che ha investito in una collezione di cantine da sogno: Clos Des Lambrays, Château d’Yquem, Dom Pérignon, Ruinart, Moët & Chandon, Veuve Clicquot, Château Cheval Blanc, Krug, solo per dire le maggiori.

In Italia quel modello non c’è ancora, o meglio fatica a farsi strada. Eppure dall’ultimo Vinitaly – un successo nonostante la Fiera mostri ogni anno di più i limiti di un quartiere in centro città, soffocato dal traffico e dai prezzi speculativi di alberghi, ristoranti e servizi peraltro carenti – esce un dato che dovrebbe far riflettere: il valore del vigneto Italia è pari a 56,5 miliardi di euro, 84 mila euro a ettaro, quattro volte più della media delle superfici agricole. La ricerca dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly su 674 mila ettari dimostra che si genera un’economia pari a 30 miliardi. Alto Adige, Trentino, Veneto, Toscana e Piemonte sono le terre rare nostrane. Le quotazioni più alte dei filari italiani – oltre il milione di euro per ettaro – si hanno nella zona di Bolzano, tra Barolo e Barbaresco, sulle colline di Conegliano e Valdobbiadene e a Montalcino. Negli ultimi 15 anni, secondo le rilevazioni elaborate dal Crea, la Valle d’Aosta ha il record d’incremento con il 114 per cento in più, Montalcino è cresciuto del 63 per cento, il Collio del 50, l’Etna quasi del 60.

Dice Lamberto Frescobaldi, presidente dell’Unione Italia Vini nonché leader del gruppo vinicolo di famiglia tra i più attivi nelle acquisizioni: «Il vigneto Italia è ormai un brand globale. In genere l’ingresso di fondi internazionali o di famiglie facoltose nelle aree simbolo della viticoltura italiana è in primo luogo una questione di prestigio, poi un bene rifugio o una diversificazione. Alla base c’è la consapevolezza di investire sul valore, più che un progetto remunerativo nel breve-medio periodo con il solo valore della produzione. Non a caso Bernard Arnault, presidente del gruppo Lvmh, ha da poco acquistato Casa degli Atellani di Milano, vigna di Leonardo compresa».

Da qualche anno è iniziato il Monopoli delle vigne. Proprio come nel gioco, si compra là dove si pensa ci sia la maggiore rendita. Al tavolo i giocatori più forti sono soprattutto stranieri e ciò che manca è ancora un allineamento degli utili di gestione con il valore patrimoniale. Il vino italiano si vende bene (14 miliardi di euro di fatturato, 8 dall’export), ma il prezzo al litro è mediamente basso se si eccettuano i grandi rossi cresciuti in valore del 200 per cento negli ultimi anni. Anche gli spumanti, che hanno totalizzato un miliardo di bottiglie nel 2022, hanno una forte penetrazione ma una relativamente bassa redditività. Questo in parte frena l’appetito dell’alta finanza.

La terra più scambiata è la Toscana con 93 acquisizioni, considerando che in tutto l’anno scorso si sono fatti 209 «affari», segue a grande distanza il Piemonte con 23. Barolo e Barbaresco sono le vigne più richieste, ma anche difficili da trovare. I fondi sono pronti a investire in Langa, dove però i produttori storici – da Claudio Conterno ad Angelo Gaja e Bruno Ceretto – non vedono di buon occhio «l’invasione». Perché se affari vanno fatti si fanno tra langotti, come Ceretto che ha comprato a Barbaresco un po’ di ettari. Il presidente del Consorzio Matteo Ascheri suona quasi un allarme: il 20 per cento del vigneto è in mani non italiane. A Montalcino solo il 40 per cento è dei «locali» e a Bolgheri il 40 per cento è «straniero».

Il fondo Clessidra – Francesco Colli è il top manager e ha già acquisito un esportatore come Botter, il gruppo Mondodelvino e la cantina abruzzese Zaccagnini, e fattura in bottiglie 450 milioni – ha messo gli occhi sui duemila ettari a Barolo divisi tra 400 aziende, ma i piemontesi resistono. Anche se il re dei jeans Renzo Rosso con il suo gruppo Brave Wine si è comprato Saffiria e ora punta sulla Toscana (ha vigna già in Veneto e in Sicilia). Gli affari più consistenti in Piemonte li ha fatti Kyle J. Krause che si è comprato prima Vietti e poi la cantina Enrico Serafino; il magnate russo Rustam Tariko ha messo le mani su Gancia, Reva è ora di Miros Lekes. L’affare che però ha avviato un nuovo «giro» nel Monopoli delle vigne è la Giordano Vini entrata nel patrimonio di Italian Wine Brands, primo conglomerato vinicolo privato italiano guidato dal gruppo Pizzolo, ma che di fatto è una public company quotata in Borsa.

Per la verità in Borsa c’è pure la Masi guidata da Sandro Boscaini. La cantina veneta di Mister Amarone è il primo gruppo familiare che ha assunto una dimensione moderna di gestione finanziaria anche se, spiega Boscaini, «i nostri azionisti preferirebbero dividendi in Amarone». È una battuta che spiega come l’investimento in vino abbia caratteristiche peculiari. La strategia della Masi – ha vigna anche in Argentina – è l’affiliazione di altre cantine. Ha cominciato con la prestigiosissima Serego Alighieri (eredi diretti di Dante) poi Bossi Fedrigotti, e ancora Canevel. Chi ha riunito sotto un solo marchio il meglio delle vigne del Paese è poi il Gruppo Italiano Vini guidato dal direttore generale Roberta Corrà. È la prima cantina d’Italia e ha lavorato per acquisizione in tutti i territori di pregio della Penisola: ha ben 15 diverse aziende vitivinicole. E ora potrebbe puntare a un ulteriore obiettivo. Il Monte dei Paschi deve vendere il suo gioiello nel Chianti senese: Poggio Bonelli.

Vittorio Moretti di Terra Moretti con la figlia Francesca ha scelto i territori d’eccellenza: dalla Franciacorta, alla Maremma (Petra e La Badiola) a San Gimignano (Teruzzi) fino alla Sardegna (Sella & Mosca). Vigna e finanza stanno insieme nel portafoglio di Marzotto che ha fatto di Santa Margherita un gruppo leader dall’Alto Adige al Veneto alla Toscana. Carlo Bonomi, mentre il figlio si è comprato Eataly, ha puntato prima su Piemonte e Oltrepò con la Lomellina Gavi- Marchese Raggio poi è sbarcato in Sardegna prendendosi Capichera, che è come dire il Vermentino di Gallura. Nel Monopoli della vigna Italia «parco della Vittoria» restano Montalcino e il Chianti e lì a puntare forte sono gli stranieri. I francesi di Epi si sono comprati Biondi Santi, il sancta sanctorum del Brunello, e poi hanno fatto un altro colpo straordinario con Isole e Olena in Chianti.

Sostiene Massimiliano Catozzi, responsabile dell’agribusiness per Intesa San Paolo: «Le sfide urgenti per il vino italiano che ha di fronte un 2023 incerto ma può affrontarle con positività, sono due: il corretto posizionamento di prezzo e la dimensione delle aziende». In sostanza, più margini, più patrimonio. Lo si vede dai numeri messi insieme da Intesa-Sanpaolo. I Borgogna all’export si vendono in media a 38 euro, i rossi italiani non vanno oltre i 10 euro al litro, lo Champagne tocca i 28, il Prosecco Docg i 4 euro. In Francia oltre l’80 per cento delle cantine ha una dimensione superiore ai 10 ettari, in Italia solo la metà arriva a quel perimetro. Perciò il Monopoli delle vigne è solo ai primi giri.

© Riproduzione Riservata