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Come cambia la ristorazione in Italia

Come cambia la ristorazione in Italia

Gli esercizi pubblici sono in profonda trasformazione. Dopo il Covid, gli aumenti nei costi di gestione impongono una selezione darwiniana, in cui sopravvivono solo coloro che occupano nicchie o s’ingrandiscono fino a diventare «catene».


Tra meno di un mese, dal 13 al 19 novembre, si celebra nel mondo la Settimana della cucina italiana. Da Seoul a Parigi passando per San Paolo e Bruxelles, si servono lasagne e tagliatelle, spaghetti, brasati, sformati e risotti e si allestisce il Gran ristorante Italia. L’idea, sostenuta dalla Farnesina, dalle Camere di commercio estere, dall’Istituto commercio estero e ovviamente dal ministero per la Sovranità alimentare, è raccontare come si mangia all’italiana e sia indispensabile, per far esprimere al meglio una nostra ricetta, disporre di materia prima che nasce nei nostri campi e nelle nostre stalle, tra i nostri filari o nei nostri «laboratori». Partita 12 anni fa ha tre scopi: contrastare l’italian sounding proponendo l’originale al posto delle imitazioni, affinare la qualità dei ristoranti italiani all’estero, supportare l’esportazione. Non sono spiccioli quelli in gioco: 61 miliardi di euro di export agroalimentare, 140 miliardi di falso made in Italy da erodere, rafforzare la cucina come attrattore turistico tenendo conto che l’enogastronomia è, al pari dell’arte, il primo motivo di soddisfazione di chi viene nella Penisola. Quest’anno – e mancano ancora due mesi al termine – ci hanno lasciato 88,7 miliardi in tasca (più 22 per cento rispetto al 2022) considerando la spesa turistica di cui il conto al ristorante è circa un quarto.

La posta in gioco è il riconoscimento della cucina italiana (quella francese già ce l’ha) come patrimonio mondiale dell’umanità. Iniziativa partita da Parma, dove ogni anno si celebra la simbolica Cena dei mille. Serve a garantire fondi a Emporio solidale e si apparecchiano, sotto la regia di Massimo Spigaroli, il re del culatello e presidente di Fondazione Parma Unesco Creative City of Gastronomy, mille coperti allestiti nel centro storico creando un legame tra cucina di tradizione, cuochi stellati nella città che è «la petite capitale» dell’agroalimentare e la necessità/desiderio di sostenere chi non ce la fa. Con Spigaroli hanno cucinato Enrico Bartolini, pluristellato e cuoco imprenditore, e Riccardo Monco, tre stelle all’Enoteca Pinchiorri di Firenze.

È come un sommario di ciò che accade nel Gran ristorante e nella dispensa Italia. C’è una polarizzazione del mercato: da una parte i pochi al top che stanno in piedi perché hanno domanda indifferente al prezzo e fanno un’infinità di altre cose: dai catering alla vendita di prodotti, dalla tv alla pubblicità; dall’altra la trattoria che fatica perché manca il personale. Nel mezzo le «catene» che fanno affari, trasformano la tradizione in fast food. A soffrire fin quasi a scomparire sono i ristoranti di medio livello, quelli storici con scontrini sempre più ridotti. Erano quelli di «tre turni a pranzo e due a cena»: oggi le presenze sono rarefatte e i proprietari se non si sono comprati i muri hanno due ostacoli durissimi da scalare: gli affitti e le bollette. Sono i ristoranti delle grandi città, dove il turismo da solo non basta. Chi sta in campagna sfrutta il mercato di prossimità, riduce i giorni di apertura, s’affida all’antica raccomandazione «vale il viaggio».

Sarebbe interessante censire quanti sono i superstiti della prima guida verde del Touring Club (anno 1931), quanti di quelli narrati nel ’35 da Paolo Monelli nel suo Ghiottone errante hanno resistito. Probabilmente i superstiti stanno tutti fuori città. In più il ricambio in cucina se non c’è continuità familiare è affidato a personale che arriva da altre culture e deve imparare. Si potrebbe chiamare la sindrome dei Sikh. Senza la comunità indiana non ci sarebbe più il Parmigiano Reggiano: sono oltre 3.500 più un migliaio di pakistani a prendersi cura delle vacche per loro «sacre». Intervistati hanno detto: abbiamo imparato più in fretta a fare il formaggio che a mangiarlo. Lo stesso vale per i pizzaioli egiziani, per gli aiuto-cuochi cingalesi: sono loro a mandare avanti il ristorante Italia, dove si conferma che il cibo genera integrazione, altrove più complicata. Ma il turn over continuo di personale, specie in sala, è un altro punto di crisi dei ristoranti che cambiano pelle e diventano osterie, tavole calde, fast food sia pure con menù di tradizione. L’imperativo è: abbattere i costi.

La mediazione più difficile è infatti quella tra lo scontrino e il potere di acquisto che condiziona la spesa di tutti i giorni, ma anche la vita e il volto della ristorazione. I dati sull’alimentare sono preoccupanti: consumi in calo del 5 per cento con un’inflazione percepita dell’11,6. Si mangia meno e peggio a casa (ma si sprecano ancora 27 chili di cibo a testa all’anno, fonte Divulga) e al ristorante chi ci va fa un antipasto in due, un piatto a testa, niente dolce e vino raramente (anche le bottiglie registrano un crollo verticale, meno 12 per cento di consumo). I dati della Fipe, Federazione italiana pubblici esercizi, però sembrano contraddire tutto questo: i ristoranti hanno incassato di più. Hanno fatto oltre 30 per cento nel primo trimestre e più 13,8 nel secondo, il fatturato è tornato sopra la pandemia, ma i margini sono crollati. Anche loro soffrono di un’inflazione «alimentare» attorno ai 10 punti, cui si sommano i costi energetici e di affitto. Chi resiste è soprattutto la ristorazione familiare. Una dinastia di altissima classe sono i Santini che a Canneto sull’Oglio da oltre un quarto di secolo con Nadia Santini, forse la migliore cuoca al mondo, sono insigniti di tre stelle Michelin.

Il meglio di Mantova in cucina con un’ospitalità impagabile officiata da Antonio Santini e quel filo d’innovazione necessario in cucina e in sala con Giovanni e Alberto i due figli. La cucina «dinastica» è quella che consente alla ristorazione di qualità di restare a galla. Lo sa Peppino Tinari, a Guardiagrele nella sua Villa Maiella, provincia di Chieti. In cucina con mamma Angela c’è Arcangelo, in sala e accanto a Peppino l’altro figlio Pascal. Vale per Moreno e Mariella Cedroni (lei è la migliore maître d’Italia) che hanno diversificato l’offerta: la Madonnina del Pescatore a Senigallia, Ancona (due stelle) è al top, poi c’è il Clandestino, il più romantico tra i ristoranti «pieds dans l’eau» d’Italia, infine Aniko un bar da pesce. La dinastia autentica è poi quella dei Cerea «da Vittorio» a Brusaporto, Bergamo, altro «tre stelle», in cima alla classifica di redditività. Mediobanca ha fatto i conti: gli stellati nel 2022 hanno fatturato 327 milioni di euro (+ 26 per cento). Rispetto al complessivo di settore valgono appena il 2 per cento. I Cerea ne hanno fatturati 40 di milioni, Bottura 17, Alajmo 16, Uliassi altro di Senigallia, tre stelle con Mauro e la sorella che fanno tutto 11, ma Carlo Cracco senza tv ne perde 4.

Certifica la Fipe che i ristoranti stanno cambiando pelle. Sono 195 mila, ne sono nati 5.770, ma hanno chiuso quasi 12 mila esercizi. Il 60 per cento non supera cinque anni di attività. Uno chef star come Antonino Cannavacciuolo incassa 14 milioni di euro, ne spende 3,5 per il cibo; fra tivvù e pubblicità fattura quasi 4 milioni. Alessandro Borghese ripartisce così il suo fatturato: 60 per cento dalla tivvù, 40 per cento ristorante e consulenze. Quelli che lasciano fanno posto alle catene che sono in piena espansione. Non più solo hamburger, ma il cibo di strada e il cibo etnico elevati a business. Hanno avuto il maggior vantaggio dal rimbalzo post Covid, abbattono i costi perché si comportano da fast food: pochi prodotti che diventano dei must. È il caso dell’Antico Vinaio. Inventato da Tommaso Mazzanti che ha semplicemente riempito di finocchiona la schiacciata fiorentina sposandoci un bicchiere di Chianti.

Ha debuttato a Firenze e oggi vanta file chilometriche davanti alle sue rivendite. Ha aperto a New York e Los Angeles ed è l’emblema del «food» italiano, spopola a Milano. La progressione del fatturato impressiona: 12 milioni di euro nel 2020, 18 milioni nel 2021, 22 milioni l’anno scorso. L’obiettivo? «Arrivare a 50 milioni» dice Mazzanti, «entro il 2025 perché la gente comunque deve mangiare».

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